Fermentazioni carbonare: i primi homebrewer italiani
Oggi l’homebrewing è uno degli hobby più amati, seguito da sempre più italiani pronti a trasformarsi in birrai e riempire pentoloni e fermentatori per realizzare la loro birra preferita da offrire ad amici e parenti. Per entrare nel tunnel basta visitare uno dei tanti siti dedicati e con un click farsi recapitare a casa l’occorrente. Ma venti anni fa non era certo così semplice: niente fornitori, niente libri, niente informazioni sul web, niente concorsi e associazioni. Nell’anno delle celebrazioni dei venti anni della birra artigianale ci sembra doveroso ricordare non solo i “pionieri” che hanno fatto la storia della birra aprendo nel 1996 i primi microbirrifici, ma anche i primi birrai casalinghi che con la loro attività, la loro passione, hanno trasmesso cultura, dispensato consigli e sospinto molti appassionati nel mondo della birra dalla porta dell’homebrewing.
Fermentazioni pioneristiche
di Paolo Erne
Il mio battesimo, birrariamente parlando, inizia con mio nonno, uno degli ultimi tecnici ad aver aggiornato gli impianti della Dreher e che pensò bene di portarmi da bambino a vedere i lavori che stava seguendo. Entro per la prima volta in birrificio, in fasce! La scintilla è scoccata quando mio cugino Marcello, che abita in Germania, è venuto in possesso di una antica ricetta di una stout, fornitagli da un suo avo emigrato in Irlanda. Compiuti i 23 anni di età mi sono detto che era giunto il momento di replicarla. Era il 1973, per farci un’idea quelli erano gli anni in cui Charlie Papazian in America iniziava a muovere i primi passi come homebrewer. Informandomi in giro (ho avuto la fortuna di parlare con Corsi, mastro birraio che ha messo la firma sulla Moretti Rossa) ho scoperto che avrei avuto non poche difficoltà: come già sapete, produrre birra in casa era proibito, per non parlare della difficoltà nel trovare testi in cui fosse riportato in maniera dettagliata il processo produttivo e le materie prime da utilizzare. Ovviamente non c’era internet e quindi mi sono buttato a spulciare la Treccani, trovando un bel po’ di materiale; l’ho letto e riletto ma abbondava di tecnicismi. Sono partito alla ricerca degli ingredienti, compito che ai giorni nostri può sembrare facile ma al tempo non lo era affatto! Mi sono procurato l’orzo al mercato, dato che i birrai non potevano venderlo, la difficoltà era maltarlo. Mi sono studiato i processi di maltazione ed ho provato a farlo in casa: l’ho messo in acqua, l’ho fatto germinare e seccato nel forno di casa (con grande gioia della moglie visto che quando germina gli enzimi odorano di composti biliari). Se poi gli enzimi non fossero bastati, avevo comunque un piano B: al tempo lavoravo per una casa farmaceutica, quindi avrei potuto trovare qualcosa di interessante in laboratorio. Ovviamente in casa riuscivo ad ottenere principalmente malti chiari, per scurire la birra aggiungevo il malto Kneipp (quello del caffè d’orzo). A fine ammostamento dovevo filtrare il mosto dalle trebbie, ed il metodo che avevo pensato era semplice ma efficace: utilizzavo un canovaccio di garza ancorato alle quattro gambe di uno sgabello capovolto, per formare una sacca, con sotto un grosso secchio a raccogliere il liquido. Possiamo pensarlo come un primitivo BIAB (brew in a bag), anche se lo utilizzavo solo a mash concluso. Apriamo adesso il capitolo luppolo: lo andavo a raccogliere dalle piante selvatiche sulle rive di fiumi, e avendo la fortuna di abitare nell’alto Friuli ne trovavo davvero in quantità. Il problema principale era che i coni di quasi tutte le piante puzzavano di cipolla, e quindi dovevo operare una selezione piuttosto accurata. Una volta raccolto, dovevo pensare a come conservarlo per scongiurare ossidazioni che avrebbero rovinato la birra. Pensai di farci delle tisane piuttosto concentrata e poi congelarla in cubetti, per poi utilizzarli durante la bollitura. A seconda del grado di amaro, li avevo catalogati con X, XX o XXX: metodo piuttosto utilizzato – si veda anche De Ranke -, ma che avevo sviluppato in completa indipendenza, a dimostrazione del fatto che chiunque fa birra ha lo stesso modo di pensare, indipendentemente da dove viene! A fine bollitura, il raffreddamento avveniva nella vasca da bagno piena di acqua fredda. Poi dovevo fronteggiare le complicazioni in fase di fermentazione, a partire dal vero protagonista della magia: il lievito. Andavo dal panettiere a chiedere i panetti di lievito più freschi, mi ricordo che mi facevo informare su quando sarebbero arrivate le nuove “partite”. Quando poi, all’inizio degli anni ‘90, iniziò ad essere reperibile l’US05 sembrava di aver scoperto l’America (visto anche che l’US05 è un lievito tipicamente da Ale americane). Durante la fermentazione non riuscivo a controllare le temperature, l’unico modo che avevo era quello di inserire le taniche con il mosto all’interno della solita vasca da bagno riempita di acqua fredda. Inizialmente utilizzavo contenitori di plastica senza coperchio con un foglio di nylon tenuto fermo con un elastico, fortunatamente senza mai avere infezioni. A proposito di infezioni, per sanificare l’attrezzatura utilizzavo candeggina e risciacquavo abbondantemente. A fine della giornata di cotta avevo sempre le mani completamente bianche! Col passare degli anni le conoscenze sono aumentate, anche se la reperibilità dei materiali era sempre alquanto problematica. Le cose iniziarono a cambiare da quando alcuni friulani, emigrati in Australia, iniziarono a tornare portando con sé i primissimi kit per fare la birra. Ricordo un certo Aldo di Udine che ne portò uno al cugino, il proprietario dell’enologica friulana. Piccola parentesi: all’interno della bottega, come garzone, lavorava Eliano Zanier (noto nel mondo della birra come il fondatore di Mr. Malt). Proprio Eliano puntò su quei kit, vendendo in bottega “estratti di malto per preparazione di bevande” (non si poteva scrivere che erano per la produzione di birra, dato che era ancora vietato). Intanto iniziavano a comparire le prime bustine di lievito di alta qualità. Era l’alba di una nuova era: stava nascendo l’homebrewing. Nel 1990 si unì Nicola Fiotti, poco dopo Davide Bertinotti, poi a distanza di 6 mesi arrivò Agostino Arioli (futuro birraio del Birrificio Italiano), in seguito Max Faraggi. Ricordo che nel 1994 andavamo in giro (Triveneto e Lombardia) col furgone dell’enologica friulana con Zanier a fare dimostrazioni su come si faceva la birra, con grandi tavole rotonde di homebrewer, fino a che non uscirono fuori i primi birrai. Da quel momento il fermento è cresciuto molto rapidamente: sono nati i primi gruppi di collezionisti, gli homebrewer sono spuntati in tutta Italia e hanno cominciato ad aggregarsi, si è diffuso internet e i suoi primi forum, e finalmente sono diventati reperibili gli ancora sconosciuti testi americani dedicati all’argomento. Ricordo che in quegli anni abbiamo fatto anche una dimostrazione durante Verde Mattina (programma al tempo condotto da Luca Sardella) e per la prima volta si è parlato in tv di birra artigianale e di birra fatta in casa.
La preistoria dell’homebrewing
di Max Faraggi
Mi sembra una buon idea dar spazio alle origini dell’homebrewing durante i festeggiamenti dei venti anni della birra artigianale: credo infatti che la nascita e la crescita tumultuosa della birra artigianale e di quella fatta in casa nel nostro Paese siano strettamente correlate, oltre che parallele e contemporanee, e la fine degli anni ’90 possono considerarsi l’anno di nascita di entrambi i movimenti. Partiamo quindi dalla preistoria dell’HB italiano. Era infatti il lontano 1984 quando produssi la mia prima light ale da kit! Studente universitario, ero già un piccolo “beer hunter” in erba – compatibilmente con l’offerta birraria, infinitesima rispetto ad oggi – quando mio nonno, di ritorno da Londra mi portò ben quattro “latte” di estratto luppolato. Mi sembrò un’ottima idea! Trovai un tino di plastica e una tappatrice e mi procurai le bottiglie, ed ecco le mie prime birre fatte in casa! Probabilmente in qualche negozio di enologia avrei potuto trovare anche un’airlock (non sapevo nemmeno che in italiano si chiamasse gorgogliatore), ma optai per una fermentazione aperta, giusto con un telo o un coperchio appena appoggiato al tino – in fondo la fermentazione aperta è usata da birrerie tradizionali inglesi, tedesche e non solo. Le prime birre – a leggere le note su un quadernone che ancora conservo – furono potabili anche se non eccezionali; l’ultima delle quattro era la migliore, ma ormai le “latte” erano finite. Cercai inutilmente di scrivere a qualche fornitore inglese di ingredienti (cercando gli indirizzi alle Poste… internet era bel al di là da venire!), poi due anni dopo, nel 1986, un viaggio in Scozia mi permise di scovare un negozio dove oltre a un paio di kit mi azzardai a comprare estratto di malto, qualche malto speciale, luppolo, lievito e un densimetro, nonché – altrettanto importante – un libro! La nuova frontiera dell’”E+G” mi appassionò e dette dei buoni risultati, ma presto anche questi ingredienti si esaurirono. Fu allora che – la mente sempre rivolta a trovare il modo per continuare le produzioni – ebbi l’illuminazione. In coda presso una pizzeria da asporto in attesa del mio turno, mi cadde l’occhio su una grossa latta in un angolo: “estratto di malto – 25 Kg”. ESTRATTO-DI-MALTO. Malto? Proprio quello lì? Scoprii che veniva usato in piccola quantità dai panettieri, trovai così un grossista a Genova, non avrebbe potuto rivendere a privati senza P.IVA ma… insomma, eccomi proprietario di 25 kg di melassa appiccicosa che aveva tutto l’aspetto e l’aroma dell’estratto per HB che avevo già usato. Lo provai: funzionava! A quel punto ero in grado di procurarmi a Genova gli ingredienti più pesanti (estratto e poco altro) e farmi spedire dal negozio scozzese di cui sopra – con costoso e macchinoso bonifico – lieviti, luppoli e qualche malto speciale… tattica che suggerii anche ad amici che cominciavano a seguirmi su questa strada. Si, perché al tempo iniziai a divulgare la “nobile arte dell’homebrewing”, stampando una piccola guida. L’hobby non aveva ancora preso piede, ogni volta che qualche amico mi diceva di un conoscente che faceva la birra, scoprivo che aveva imparato da qualcuno che a sua volta aveva avuto l’idea da qualcun altro, che a sua volta… era stata edotto da me, e il cerchio si chiudeva! Birrificare, insomma, rimaneva un hobby non facile da portare avanti, la carenza di informazioni non facilitava il miglioramento della propria tecnica e alla lunga lo slancio di un homebrewer “solitario” rischiava di affievolirsi. Tutto cambiò (e non solo per me) con Internet, e il 1997-98 segnò l’inizio del movimento homebrewing in Italia – al quale penso di aver dato una spinta iniziale io stesso. Scoprii che esistevano forum e mailing list, siti in USA con infiniti approfondimenti tecnici, che potevo migliorare molte cose nelle mie produzioni. Misi online un mio sito birrario (maxbeer.org) e quando mi presentai su una famosa mailing list USA, fui felice di scoprire che non ero da solo in Italia! Altri avevano per anni prodotto birra in casa, ognuno all’insaputa dell’altro, chi usando lo stesso estratto di malto da panettiere, e chi producendo all grain in grande stile. Questo aspetto di internet – poter entrare in contatto con altri appassionati italiani – fu per me altrettanto importante: dopo il mio sito, e le serate spese a rispondere alle mail, fondai (incoraggiato dall’amico Carlo Macinai) il newsgroup it.hobby.birra. Seguirono i primi raduni, e da qui i concorsi, le associazioni, i rapporti con il movimento della birra artigianale e tutto il resto. La preistoria era finita, si entrava nella storia della birra fatta in casa!
I carbonari della birra
di Davide Bertinotti
La mia prima produzione inizia a fine 1998, poco dopo avere scoperto, grazie agli albori di internet, la presenza di altri appassionati e soprattutto la possibilità di reperire informazioni e materie prime in Italia. Mi viene da sorridere pensando a come allora venivano organizzati i primi raduni, quasi carbonari, a casa di qualche homebrewer oppure presso quei pochi brewpub in attività che avevano ben colto la potenziale portata di questo manipolo di fanatici (si, forse è questo il termine esatto) e che volentieri ospitavano gli homebrewers. I birrai/titolari erano spesso pronti all’assaggio e al consiglio spassionato e anche quando la situazione era senza speranza non affondavano mai il coltello nella piaga. In tutti questi anni ho prodotto e assaggiato decine, forse centinaia di produzioni casalinghe. Alcune rivedibili, altre veramente ottime. C’è da dire che ripensando agli assaggi di birre realizzate da homebrewers poi diventati birrai professionisti col senno di poi, posso dire che già al tempo si poteva spesso cogliere la “marcia in più” in termini di fantasia, capacità brassicole e attenzione ai dettagli; tutti produttori che poi hanno avuto successo in ambito commerciale. Di alcuni di questi ricordo anche cose meno riuscite, anche vere e proprie tragedie birrarie di altri che – fortunatamente! – birrai professionisti non lo sono poi diventati. Tralasciando quelli che hanno fatto il grande salto, ricordo diverse ottime produzioni di birrai casalinghi, tra tutte vorrei però citare una fantastica roggenbier (birra alla segale) prodotta da un homebrewer della primissima ora, equilibrata e ottimamente brassata, stile di non facile produzione ispirato a una tradizione bavarese che forse è stata oggi dimenticata dagli stessi tedeschi. Dalla parte opposta, la palma della birra peggiore non può che andare a un anonimo che mi propose l’assaggio di una non precisata “Chouffe clone” prodotta con estratto di malto da panettiere, luppolo indefinito e soprattutto fermentata con il fondo di lievito di una unica bottiglia di una Chouffe appena bevuta e buttato nel mosto “as is”. Più che birra era mosto inacidito, ma l’autore ne andava fiero. Più che appellarmi a Papazian, avrei dovuto chiamare i NAS! Devo dire che nonostante la poca esperienza, la varietà di materie prime ben inferiore rispetto a quelle disponibili oggi e minori informazioni, anche a quel tempo potevano essere realizzate ottime birre. Il mio cavallo di battaglia è stato da subito un barley wine, che continuo a produrre regolarmente ogni paio d’anni, e che mi ha consentito di vincere il primo concorso per homebrewers di dicembre 2000 e, con varianti in ricetta, conseguire un terzo posto a un successivo concorso. La ricetta è molto semplice, quasi banale, e il segreto sta semplicemente nella pazienza: almeno 6 mesi di cantina sono necessari.
Ricetta Barley Wine (E+G)
Litri 23
Ingredienti
7.5 kg estratto di malto light
0.3 kg malto crystal
110 g luppolo Target 60 min.
Gravità iniziale: 1,100
Gravità finale: 1,030
Alcool (Vol): 10,3%
Amaro (IBU): 70
Lievito Fermentis S-04
Portare 20 litri di acqua a 65C ed immergere i grani crystal macinati. Lasciare a questa temperatura per 30 min. Togliere i grani e sciogliere l’estratto portando ad ebollizione. Aggiungere il luppolo in bollitura per 60 min. Aggiungere acqua in fermentatore sino a 23 litri. Aggiungere il lievito dopo aver realizzato un grosso starter; meglio se si utilizza il fondo di fermentazione di una birra appena imbottigliata. In alternativa, utilizzare il contenuto reidratato di almeno 4 bustine. Dopo una settimana di fermentazione a 20C, travasare la birra in un secondo fermentatore. Imbottigliare dopo due settimane senza zucchero per il “priming”. Lasciare maturare per almeno 6 mesi (meglio un anno o più) a temperatura di cantina ed al buio.