Il mondo brassicolo belga è stata una meta fondamentale per chiunque si sia avvicinato alla birra artigianale. Semplici appassionati come futuri professionisti hanno battuto le più remote province del piccolo regno alla ricerca di ispirazione. Del resto il Belgio è molto vicino alla sfera brassicola italiana e non solo da un punto di vista geografico, basti pensare ai nostri birrai, soprattutto della prima ora, privi della tecnologia per lavorare in isobarico, con limitate conoscenze e capacità, ma dotati di grande emotività e creatività.
Ci sono birre belghe che hanno colpito il nostro immaginario, regalando emozioni, raccontando un nuovo modo di bere, facendo scoprire sensazioni, aromi e sapori. Birre che hanno segnato il nostro futuro nei pub, che magari abbiamo abbandonato per provarne di nuove, ma che alla fine ricerchiamo e vorremmo ritrovare, anche se oggi si fa fatica a rintracciarle. Talvolta, quando le riscopri, le tratti come se fossero delle chicche da centellinare proprio perché di fatto sono quasi sparite dalle spine. Spesso la motivazione del publican di turno è che sono birre che hanno tutti, quindi non ha senso tenerle o che sono “vecchie”, che ci sono cose nuove, moderne, che tirano di più. In alcuni casi sono state abbandonate perché prodotte da birrifici acquisiti o passati di mano, com’è il caso della Brasserie d’Achouffe e della loro Chouffe Houblon, il prototipo delle Belgian IPA, ora di proprietà di Duvel Moortgat. Gli esempi più evidenti di “birre scomparse” sono invece la Saison e la Moinette Blonde di Dupont, che nei primi anni 2000 erano immancabili in pub “di un certo livello”; la XX Bitter di De Ranke, che ci ha insegnato a familiarizzare con il sapore amaro; le birre di La Rulles, come la Estivale, che negli ultimi anni ho trovato solo al Beer Attraction di Rimini; le birre di Abbaye des Rocs che un tempo era piuttosto diffusa con la Montagnarde, “la rossa”, che imparammo rigorosamente a definire ambrata. Vero che nel frattempo sono cresciute, e di molto, le birre italiane, che in parte possono sostituirle, ma non dobbiamo dimenticarci in toto delle originali. Per questo abbiamo pensato di rispolverare cinque birrifici, cinque storie dal Belgio che vale la pena conoscere.
Brasserie Dupont
Ci sono dei birrifici che hanno un posto speciale nella storia di chiunque abbia mai bevuto una birra artigianale. La Brasserie Dupont è senz’altro uno di questi, grazie alla sua Saison, con la quale ha messo nero su bianco (o scritto ex novo, ma questo non è il momento né il luogo di trattare questo argomento) i canoni dello stile Saison. L’impronta di questo stile e dunque l’influenza della Saison Dupont sul panorama brassicolo internazionale è stata notevole.
La Brasserie Dupont si trova a Tourpes, nella provincia dell’Hainaut in Vallonia e il birrificio affonda le sue radici in una fattoria del XVIII secolo, in cui fu poi integrato un impianto nel XIX secolo, ma è di proprietà della famiglia Dupont dagli anni ‘20 del secolo scorso. Proprio in quei primi anni Louis Dupont pose le basi per ciò che oggi conosciamo come Brasserie Dupont, prima di lasciare, nell’immediato dopoguerra, l’azienda nelle mani del nipote, Sylva Rosier con cui collaborava da oltre vent’anni. A Louis dobbiamo la continuità della ricetta della Saison Dupont (che pare essere prodotta in questa ex fattoria sin dal 1844), mentre a Sylva dobbiamo la salvezza del birrificio nel delicato periodo post bellico, con le Pils che conquistavano il mercato (proprio lui decise di produrre a sua volta una Pils, la Redor). Oggi l’azienda è condotta dalla quarta generazione e le cose sembrano immobili. Il più grande cambiamento è stato nei primi anni 2000 con l’acquisizione di nuovi macchinari, perché quelli del 1844 iniziavano ad essere un po’ datati e quindi si decise di sostituirli, pur lasciandoli in vista, con tini e bollitori made in Italy (Velo). Nel 2013 la cantina è aumentata ma i fermentatori sono ancora dei tini di forma quadrata, come gli originali, per permettere al lievito di svolgere al meglio il proprio lavoro, rilasciando gli esteri che firmano, in modo univoco e riconoscibile, ogni birra. Negli ultimi anni, complici alcuni articoli che hanno messo in dubbio alcuni aspetti storici delle Saison e anche l’avvento di Farmhouse Saison e di Brett Saison, le birre di Dupont sono state un po’ accantonate dalla scena artigianale e sia Saison, sia Moinette, sono quasi scomparse dai nostri pub di punta. Tourpes è uno dei posti dove potrei vivere la vecchiaia, bevendo con gli altri vecchietti la Redor Pils nella taproom di Dupont, intervallata da qualche Saison, ricordando, come un disco rotto, le prime visite qui, al birrificio, in produzione, di quando apparve l’impianto della Velo, della capacità di far “cantare” il lievito da soprano come da tenore, soltanto cambiando le temperature. E proprio le temperature, non proprio un’eccezione per il mondo belga, non sono controllate: i tini di fermentazione sono a cielo aperto, con sonde per la temperatura, ma senza sistema di raffreddamento. Un tempo un biologo mi disse che un lievito opportunamente addestrato può fare qualsiasi cosa. Anche se non credo intendesse proprio questo, mi piace raccontarlo così: il mosto viene portato alla corretta temperatura di inoculo del lievito a cui poi viene lasciato il compito di gestire la temperatura. Resta comunque che ho visto il lievito di casa lavorare anche a temperature attorno ai 40°C!
Abbaye des Rocs
La storia di questo birrificio di Montignies sur Roc è quantomeno particolare. Tutto iniza negli anni 70 quando un impiegato del catasto, Jean Pierre Eloir e Marie Jeanne Bertiau, sua moglie e figlia di un birraio, si trovarono costretti a fondare un birrificio per poter vendere la birra che si producevano in casa, e avere così il permesso di commercializzarla. Siccome la quantità di birra prodotta era inferiore a quanto permesso all’epoca dalla legge belga, nacque così il primo microbirrificio in deroga alla legislazione.
Il nome Abbaye des Rocs, inizialmente riferito alla prima birra prodotta e poi a tutto il birrificio, si lega alla vicina abbazia, che nel XVIII secolo produceva birra, prima di essere distrutta dai soldati napoleonici. I vari macchinari, dalla lavabottiglie alla linea di imbottigliamento, fino all’impianto di produzione, furono acquisiti man mano sul mercato dell’usato o, per lo più, costruiti riciclando pezzi di altri oggetti, più o meno affini e, in parte, sono ancora in funzione. Il riutilizzo, il recupero di oggetti e macchinari, vale a dire il riciclo o upcycling, per usare l’inglese, è ancora oggi alla base dell’impresa, ed è evidente sin dal primo sguardo all’interno della struttura produttiva. L’edificio che il birrificio occupa dal 1987, anno in cui si effettua un primo, importante, ingrandimento con l’introduzione di un nuovo impianto e più spazio in cantina per permettere di soddisfare la crescente richiesta del mercato, è un insieme di pezzi, quasi artistico, con il piano cantina sottostante collegata da un vecchio montacarichi che muove letteralmente una parte del pavimento, lasciando il piano superiore con un baratro! Gli spazi liberi sono pochi e a dirla tutta la pulizia non è particolarmente accurata: fossimo in Italia l’azienda sanitaria avrebbe non poco da ridire. Nei primi anni 90 la gestione passa nelle mani della figlia dei fondatori Nathalie Eloir e del suo compagno Georges Levecq, che continuano il lavoro originario, rispettando la filosofia dei genitori sul riciclo e sul rispetto dell’ambiente e proseguono la crescita delle birre in qualità e in quantità di referenze e di volumi. La società si divide su due proprietà, una destinata alla produzione e una, Le Village du Moulin, destinata all’accoglienza e allo sfogo di altre passioni, come quella per l’arte, per la cucina, per i piatti e i formaggi locali. Le birre guardano alla classica scena belga, quella del dopoguerra, con alcol alto ma nascosto, e ne sono ottimi esempi. Nei primi anni 2000 erano un classico da bere, rigorosamente in bottiglia, in pub d’élite e un perfetto esempio da usare in molte lezioni, in particolare la Brune e la Blonde. Una delle birre che più colpivano l’immaginario era la Blanche des Honnelles, una Double Blanche considerando il volume alcolico. Nella mia ultima visita, a fine 2019, ho apprezzato molto la loro Saison. La birra però più nota era La Montagnarde, una suadente birra ambrata da 9 gradi, elegantemente caramellata e bilanciata da secchezza e bollicina, esempio da manuale di “dangerous drinkable”. Nonostante la linea produttiva un po’ retro come scelte stilistiche – le etichette in compenso sono state rivisitate pochi anni fa – restano birre che berrei di tanto in tanto se fossero disponibili. In Italia invece sono lentamente scivolate nell’oblio, per lungo tempo non sono state più importate e sono tuttora pressoché introvabili.
De Ranke
Il birrificio, dopo una lunga e complicata storia cominciata negli anni ’30 e legata alla famiglia Bacelle apre, nella conformazione che conosciamo ancora oggi, nel 1996 grazie all’incontro tra Nino Bacelle e Guido Davos. Il nome De Ranke richiama il luppolo, come pianta rampicante, perché il luppolo è centrale nella filosofia di Nino e Guido: nel 1996 esce sul mercato la XX Bitter, amara di nome e di fatto, che loro e non solo definiscono una pietra miliare nel panorama brassicolo belga, costellato, in quei tempi, di birre dolci o al massimo secche, ma dalle quali il sapore amaro era pressoché scomparso da tempo.
Nino e Guido iniziano a produrre da Deca, a Vleteren, birrificio da cui prende slancio anche un altro grande protagonista della rivoluzione brassicola belga, De Struise e passano a un impianto proprio dal 2005 a Dottignies. Il cambio di passo è evidente perché con i loro macchinari “l’oro verde” è ancora più al centro della scena. Possono finalmente lavorare esclusivamente con luppolo in fiore e iniziare a pensare a birre del raccolto, le Harvest, con fiori di luppolo freschi, ma anche spingere le sperimentazioni più in là, incrociando le loro Ales con il mondo delle fermentazioni spontanee e affiancando alla Kriek già sul mercato, anche la Cuvèe De Ranke, un blend di una birra di De Ranke con un Lambic, in cui si cerca il bilanciamento con la parte sour, creando una nuova pietra miliare del mercato belga. In quegli stessi anni le loro birre erano un passaggio obbligato per ogni appassionato della prima come dell’ultima ora, le si trovavano nei corsi come nei migliori pub. Nei primi anni di vita di De Ranke valse il detto “nemo propheta in patria”: il mercato interno, quello belga, faticò a decollare, ma le birre di De Ranke si trovano facilmente all’estero, dagli Stati Uniti al Giappone passando per Italia e Scandinavia e altri paesi europei. Questo permise al birrificio di crescere e anche di conquistare il mercato locale che negli ultimi anni raggiunge il 50% e si consolida di anno in anno, segno che molti appassionati belgi iniziano a cercare birre locali con sapori e aromi che si discostano dal classico panorama del dopoguerra, costellato da birre alcoliche, tendenzialmente dolci o da lager industriali. L’introduzione in gamma della Saison de Dottignies è un altro passo nel recupero di una tradizione, in questo caso quello delle birre prodotte nelle fattorie dell’Henegouwen, la provincia in cui si trova il birrificio. Nino e Guido, orgogliosamente fiamminghi e appassionati studiosi di birre belghe, si riflettono fortemente nelle loro produzioni e altrettanto fortemente sono corresponsabili della nascita di molti birrifici cui hanno spianato la strada aprendo il mercato, da pionieri, con birre che riprendono antiche tradizioni, che guardano al panorama mondiale, ma che si integrano alla perfezione con la scuola belga.
La Rulles
La Brasserie Artisanale de Rulles prende il nome dal villaggio in cui nasce, nel cuore della Gaume, nell’estremo sud del Belgio, non lontano da Orval. Zona rurale, molto lontana dal traffico e dal clamore delle grandi città e del centro nevralgico del Belgio. Qui l’economia è in recessione, l’agricoltura è una importante fonte di sostentamento tra queste meravigliose colline e sono poche le attività nate nel nuovo millennio. Una di queste aprì verso la fine degli anni ’90 grazie a un giovane, futuro, mastro birraio, Grégory Verhelst.
Grégory in realtà è natio di Tournai, sempre in Vallonia ma molto più a nord, ha studiato all’università di Lovanio per birrai e maltatori. Le prime birre vedono la luce ben prima della fine degli studi e la prima nata, la Blonde da 7,0% vol. fu, a detta di Grégory stesso, probabilmente la prima birra belga brassata esclusivamente con luppoli americani. Già perché La Rulles è un birrificio che usa con grande disinvoltura, appunto sin dalla prima birra, luppoli statunitensi. Le referenze seguenti, che hanno un peso ben maggiore nella storia del birrificio per quanto hanno colpito l’immaginario popolare, sono la Triple e la Estivale. La prima è ovviamente una Triple piuttosto canonica, la seconda è una Saison, se vogliamo ispirata a Dupont, ma in entrambe anche la luppolatura aiuta a completare il bouquet aromatico. Un approccio produttivo che è stato di grande ispirazione, a volte inconsapevole, per molti altri birrai e per tante birre che però in rari casi hanno saputo raggiungere il bilanciamento che ottiene Grégory nelle sue creazioni. Fino alla fine della prima decade il lievito utilizzato proveniva da Orval, dopo che Eddy Pourtois della Brasserie Sainte-Hélène (che si trova lì vicino) presentò Grégory a Jean-Marie Roch, l’allora mastro birraio del birrificio trappista. Usanza piuttosto comune nelle aree limitrofe all’abbazia, ma da cui Rulles oggi è esente avendo oramai il proprio lievito fresco e il relativo laboratorio per controllarlo. Personalmente ho scoperto il birrificio dapprima grazie alla Estivale ma a folgorarmi fu la Blonde: ogni elemento è al suo posto, secca il giusto, corpo perfetto, tenore alcolico nascosto. Ricordo un pomeriggio estivo a berla nel giardino dietro al birrificio, con Grégory e la moglie, ascoltandolo mentre spiegava le sue idee, la fermentazione a cielo aperto, come da tradizione belga, ma anche la sua idea sull’uso del luppolo americano, alla ricerca di profumi che i lieviti e tanto meno i luppoli belgi avrebbero mai potuto donare alle sue birre; un pomeriggio che mi svelò tutta la sua passione e l’amore per la sua terra d’adozione, la Gaume. E per promuovere la sue provincia è anche da vent’anni uno degli organizzatori del Brassigaume, un bellissimo festival con birrifici locali e stranieri, tra cui anche italiani.
Brasserie De La Senne
Nel momento in cui si conoscono Yvan De Baets e Bernard Lebouq capiscono di condividere una passione e un sogno e che insieme possono realizzarlo. Brasserie De La Senne nasce nel 2003 e un anno dopo organizzano il primo Bruxellensis, piccolo festival dove trovare birre prodotte con criterio, che rompano con le produzioni tipiche del dopoguerra, in un’atmosfera rilassata.
La Taras Boulba e la Zinnebir, nel frattempo, iniziano a farsi conoscere: due Pale Ale moderne che in realtà riprendono le birre del passato belga, in cui lievito e luppoli si fanno sentire e il sapore amaro, seppur bilanciato, è ben presente. La prima sede, nei dintorni di Bruxelles, è a Sint Pieters Leeuw nel vecchio deposito del birrificio Moriau, che ben presto mostra tutti i propri limiti, tanto che continuano sì a produrre ma presso altri birrifici. Nel 2010 ecco la seconda sede, nella prima periferia della capitale belga, e in quel momento sono il secondo birrificio, con Cantillon, di Bruxelles, dunque i primi a tracciare la renaissance brassicola della capitale. Il capannone ha spazi ampi che, per un occhio abituato alla scena italiana, pare enorme, con posto per tutto, produzione, tap-room, magazzino, celle di rifermentazione e di stoccaggio, spazio separato per le botti, cantina di fermentazione, cantina di rifermentazione, zona di confezionamento. Non molto tempo dopo lo spazio diventa invece insufficiente e quindi si inizia a pensare a un nuovo progetto che permetta di dare sfogo anche alla nuova passione di Bernard, la ristorazione. Dal 2019 il nuovo birrificio, vicino al vecchio porto fluviale, inizia ad essere operativo. È un momento di forte preoccupazione, i costi salgono man mano, arriva la pandemia con conseguente flessione delle vendite, nel frattempo a Bruxelles alcuni locali non tengono più la Zinne o la Taras perché, a parer loro, troppo diffusa. Non ultimo il fallimento dell’importatore statunitense lascia ulteriori debiti e il birrificio momentaneamente senza mercato americano. Ma oggi si vede la luce in fondo al tunnel: il nuovo birrificio è lì, operativo, con ampi spazi per gli ospiti e per tutto quello che serve, anche per il futuro. La storia di De La Senne non è molto diversa da quella di tanti birrifici italiani: amicizia, passione, qualche passo un po’ avventato, grande caparbietà e attaccamento all’azienda. La differenza principale è che i nostri due protagonisti, Yvan e Bernard, oltre alla passione hanno anche una grande preparazione tecnica che ha permesso alle birre di aumentare in numero e volumi in grande sicurezza, facendo, nel contempo, crescere uno staff adeguato e all’altezza. Le loro birre non sono mai banali, hanno carattere, rispettano i canoni della tradizione belga pur riscrivendola in chiave più contemporanea, senza mai perdere di vista il bilanciamento.