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Epic fail: le innovazioni che non hanno cambiato la storia della birra

Come tutte le ciambelle non riescono col buco, così non tutte le novità introdotte hanno fatto la storia e ottenuto il successo che i loro promotori auspicavano. Ma nonostante il fallimento, alcune meritano di essere comunque raccontate.

isobarico fermentatore

La prima ci porta ai nostri antipodi, in Nuova Zelanda, a fine anni Cinquanta: lì Morton Coutts (1904-2004), discendente di una famiglia di birrai, eccentrico inventore e responsabile della produzione alla Dominion Brewery (DB), uno dei due grandi gruppi birrari neozelandesi, ideò il metodo della fermentazione continua messo in opera per la prima volta nel 1958 in uno stabilimento di Palmerston North. In sostanza, la birra transita continuamente in una lunga serie di fermentatori più piccoli rispetto a quelli usati per la tradizionale fermentazione a batch nei quali riceve continue addizioni di lievito e di nutrienti a seconda della fase fermentativa in cui si trova, mentre il lievito viene recuperato in continuo dall’ultimo fermentatore per poi essere reinoculato nel primo in un sistema perfettamente chiuso e circolare. Un metodo che offre maggiore costanza del prodotto e una necessità di pulire e igienizzare i fermentatori molto più di rado, dal momento che sono sempre pieni, al prezzo di una maggiore esposizione a contaminazioni e infezioni che hanno poi un impatto molto più devastante perché implicano la necessità di gettar via una mole assai maggiore di birra rispetto a un singolo batch. Inoltre, la birreria che lo adotta può naturalmente produrre una sola ricetta di base e generare varianti solo a valle del processo fermentativo con aggiunta di estratti di malto e di luppolo o magari di caramello per le birre scure. L’impossibilità di variare siginificativamente la gamma dei prodotti e l’incidenza delle contaminazioni, quasi assenti alla DB grazie al lavoro maniacale e al genio di Coutts ma frequenti negli altri birrifici che imitarono il sistema, in primis il rivale neozelandese Lion Nathan, fecero sì che il sistema venne via via abbandonato anche se la DB, dal 2012 di proprietà di Heineken, lo adotta ancora in tre dei suoi stabilimenti nell’arcipelago australe.


La seconda storia ci porta a Milwaukee, nel cuore dell’industria birraria statunitense, dove la Miller, forte del grande successo ottenuto dal 1975 con la Miller Lite che per prima aveva aperto le porte alla diffusione delle light lager a basso grado alcolico e ipocaloriche, lanciò a fine anni Ottanta la Miller Clear Beer, una bevanda che della birra non aveva nemmeno più il colore risultando perfettamente trasparente e in tutto e per tutto simile ad acqua minerale con una corona di schiuma sulla sommità. Promossa con lo slogan Regular beer without the heaviness e imponenti investimenti pubblicitari, fortunatamente si rivelò un totale flop e venne ritirata dal mercato nel 1993.

Sempre nel 1993 ma in Canada andò in scena l’insuccesso delle Ice Beer: mentre nella tradizione delle Eisbock di Kulmbach, in Alta Franconia, la birra viene fatta ghiacciare per rimuovere la parte acquosa e incrementare la concentrazione alcolica e aromatica della bevanda, il fine del congelamento ideato pressoché in contemporanea dalle industrie canadesi Molson e Labatt, che ovviamente si disputarono la paternità del progetto, era, all’opposto, quello di ottenere una cristallizzazione che permettesse di rimuovere elementi aromatici ad alto peso molecolare, come i tannini, riducendo la complessità gustativa della birra lasciandole però un grado alcolico superiore a quello delle lager ordinarie: la maggior parte delle Ice Beer si collocava infatti tra il 5,5% e il 6% di alcol in volume ed era per questa sottoposta a maggiori restrizioni circa il consumo deambulante in strada, che in molte regioni canadesi, così come in numerosi stati degli USA, è da sempre segnato da un forte stigma sociale. Inizialmente arrise da un certo successo in patria, e presto imitate sia nei limitrofi USA, ove videro la luce tra le altre la Bud Ice e la Bush Ice, che in Europa, con la scozzese Tennent’s Ice da addirittura 8,6% di alcol in volume e l’italiana Sans Souci Ice brevemente prodotta da Moretti, sono rapidamente cadute nel dimenticatoio.