L’umami nella birra

Umami: ancora oggi un’espressione dal suono misterioso, per alcuni contrassegnato da echeggiamenti un po’ snob; di certo avvolto da un’aura musicale di timbro esotico. Del resto la sua codifica, che risale al 1908 e che ne collega la percezione alla presenza di un preciso composto chimico, il glutammato monosodico (sale formato da sodio e acido glutammico) va ascritta a merito di un chimico giapponese, Kikunae Ikeda, trovando dunque il proprio humus naturale nelle tradizioni alimentari e culinarie appunto del Sol Levante. Meno, invece, riusciamo a giustificare una penetrazione tanto lenta nell’immaginario collettivo e nel frasario di noi occidentali. E nonostante il tempo passato, regolarmente, possiamo testimoniare il manifestarsi dello spiazzamento e della perplessità sui volti di non pochi tra gli iscritti a corsi di degustazione al primo pronunciarsi della parola umami. Ah, e cos’è l’umami? Il professor Ikeda (1864-1936, docente all’Università Imperiale di Tokyo) prese le mosse da una propria percezione: sorseggiando il dashi (brodo di pesce tipico dei ricettari nipponici) ne avvertiva la dominante sapida come vicina, sì, alla salatura classica, eppure nitidamente distinguibile. Ebbene, le sue ricerche culminarono nell’individuazione dell’ingrediente responsabile, ovvero l’alga kombu, nella quale significativo è il contenuto di acido glutammico, come detto precursore del glutammato monosodico.
Ecco, quel sapore così particolare e unico – degno di affiancarsi, senza confusioni alcune, agli altri già consacrati come fondamentali – venne battezzato con l’appellativo di umami, termine che, nella lingua dello scopritore, significa saporito: e come tale, tutt’oggi, lo si trasla in italiano, al pari di ciò che avviene in altri vocabolari (l’inglese riporta savory, da cui il sostantivo savoriness). Ora però – ed è una delle attenuanti a quella comprensione così poco immediata del concetto in questione da parte del consumatore occidentale (italiano, in specie) – occorre convenire come il ricorso a una simile traduzione renda un’idea alquanto approssimativa, se non ci si avvalga dell’evocazione di alcuni esempi pratici o quantomeno ben presenti nell’esperienza corrente di chi ascolta. Nello Stivale è illuminante allora passare in rassegna quegli alimenti che, in virtù della rilevante presenza di glutammato, evidenziano tendenze gustative che hanno come comune denominatore, così isolabile e meglio identificabile, proprio il tratto umami. Sorprenderà peraltro constatare come le fattispecie che stiamo per menzionare corrispondano a protagonisti della nostra tavola quotidiana tutt’altro che episodici: il Prosciutto crudo e il Parmigiano Reggiano stagionato, i pomodori (ancor di più se maturi e/o cotti), la colatura di alici, diversi tipi di funghi, il brodo di carne, l’ormai sdoganata salsa di soia. Peraltro, la moderna ricerca ci dice che se la specifica responsabile del gusto umami è appunto la molecola del glutammato, almeno altre due – esse stesse due sali, l’inosinato disodico (combinazione di sodio e acido inosinico) e il guanilato disodico (derivante da sodio sodio e acido guanidilico) – contribuiscono alla sua percezione, svolgendo una funzione di decisa accentuazione.
E nella birra? Onestamente non così frequente, l’umami è comunque riscontrabile e dunque meritevole di essere censito e valutato in sede di assaggio. Specialmente quando ci si muove nel perimetro delle tipologie a tinte dark, in particolare quelle della tradizione inglese o da esse derivate. Quanto alla ricostruzione delle ragioni alla base della rintracciabilità del glutammato in degustazione, esponiamo quelli che sono e voglio essere alcuni semplici appunti, riflessioni a margine. L’orzo in sé evidenzia, nel proprio corredo proteico la molecola dell’ordeina, dalla quale (mediante scissione per idrolisi) deriva l’acido glutammico; tracce del quale si formano per riscaldamento nel corso di processi di torrefazione (nella tostatura dei semi di caffè è documentato, ad esempio). Ora, affiancando al nostro amminoacido del sodio (magari sotto forma di carbonato), dall’incontro si può generare per fusione quantità congrue di glutammato monosodico che stimolano il gusto umami. L’umami può approdare in una pinta almeno per altre due strade. La prima è quella dell’utilizzo diretto, in ricetta, di ingredienti che ne apportino per propria natura: tra esse la Kelp, un’alga bruna rintracciata nella preparazione di alcune Stout. Seconda evenienza, quella che riconduce sensazioni savory al (pur assai contenuto) fenomeno di autolisi cui il lievito va incontro nel caso di produzioni gestite con procedure (come il classico bottle conditioning) di rifermentazione all’interno del recipiente di confezionamento: le cellule giunte al capolinea della disgregazione spontanea, presentano infatti (in virtù degli enzimi secreti, che destrutturano proteine in aminoacidi, come il glutammico) determinate quantità di glutammato, oscillanti in particolare tra il 5 e il 20 per cento; evidenza questa che verrebbe a giustificare il configurarsi di sensazioni umami nelle birre consegnate all’invecchiamento (vintage).