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Cresce il mercato della birra senza glutine

Con un tasso di crescita annuo, tra 2018 e 2023, stimato attorno al 15% (ma alcuni analisti si spingono a prospettare valori fino al 40%), e una quota che tra quattro anni potrebbe valere qualcosa come 651,6 milioni di dollari, il giro globale della birra senza glutine rappresenta un boccone ghiotto da parte dei produttori, grandi, grandissimi o piccoli che siano. I quali, da qualche tempo ormai, si stanno attrezzando, in numero via via crescente, al fine di poter presentare, nella rispettiva gamma, una o più referenze titolate a fregiarsi del marchio attestante la prerogativa di etichetta gluten free.

Nel trattare questo argomento di estrema attualità, è opportuno partire proprio da qui: le qualifiche di legge. In tal senso, la normativa del nostro Paese (nel quale un’essenziale attività di vigilanza è svolta dall’Aic, Associazione Italiana Celiachia) distingue tra i prodotti aventi diritto a esibire il simbolo della spiga di grano barrata – in questo caso il valore del glutine deve risultare inferiore alle 20 ppm (parti per milione o milligrammi/litro) – e quelli invece che possono semplicemente essere accompagnati dalla dicitura a basso contenuto di (e per i quali il dato oscilla tra le 21 e le 100 parti per milione).

Il glutine, giusto. Ma, in due parole, di cosa si tratta? Vocabolo di origine latina (gluten, glutinis) e traducibile come colla, indica un complesso alimentare presente in numerosi cereali (frumento, spelta, farro, kamut, segale, orzo, avena) e costituito principalmente da proteine di due classi: le gluteline e le prolammine (con queste ultime che assumono la denominazione di gliadine nel grano, di ordeine nell’orzo, di secaline nella segale, di avenine nell’avena e così via).

Senza addentrarci nell’analisi dei motivi in virtù dei quali il glutine determina quegli stati infiammatori dell’intestino che possono diagnosticarsi o effettivamente come celiachia oppure come elevata sensibilità alla propria assunzione, dirigiamo invece la nostra attenzione a capire in che modo il settore brassicolo affronti la questione dell’abbattimento delle quantità in cui la sostanza imputata si presenta nella birra, per ragioni fisiologiche e inevitabili, dato che l’orzo (con il frumento e l’avena in posizione comprimaria ma certo non irrilevante) è uno degli ingredienti fondamentali di qualsiasi ricetta, in qualunque perimetro tipologico.

Le strategie per marginalizzare o annullare le percentuali di glutine sono sostanzialmente due. La prima consiste nell’utilizzare esclusivamente cereali che per propria natura ne siano privi: sorgo (alla base della G-Free, una Pilsener firmata dalla scuderia inglese St. Peter’s, a Bungay, nel Suffolk), riso, mais, amaranto, quinoa, grano saraceno e altri. La seconda fa perno sull’aggiunta, a inizio fermentazione, di enzimi (come il Clarex) capaci di disgregare le proteine incriminate, consentendone la precipitazione sul fondo del tino e la loro successiva espulsione (nelle operazioni di rimozione del lievito esausto, di lagerizzazione e di filtrazione pre-confezionamento): è la tecnica applicata alla versione gluten free della Sally Monroe targata Mikkeller (Copenhagen, Danimarca).

Occorre tuttavia evidenziare come il processo di birrificazione presenti passaggi che permettono di intervenire anche assai efficacemente: ad esempio mediante sostanziose gettate, durante la fasi centrali e vigorose della bollitura, di luppolo, le cui resine si rivelano inclini a legarsi chimicamente con le stesse proteine indesiderate, facendole depositare alla base della caldaia e rendendole così eliminabili al momento del whirlpool precedente il trasferimento nei fermentatori (anche in questo caso, una mano ulteriore arriverà da pazienti maturazioni a freddo e da incisive microfiltrazioni in sede di confezionamento). Questo tipo di meccanismo, diciamo, di potenziale autodepurazione fa sì che, non di rado, alla prova dei controlli, un prodotto risulti privo o a basso contenuto di glutine pur non essendo stato consapevolmente progettato nell’ottica di un simile obiettivo.

Quanto alle referenze disponibili sul mercato nazionale (inutile farne una carrellata: una semplice indagine attraverso un qualsiasi motore di ricerca fornirà all’interessato decine di risultati), è meritevole evidenziare come non solo il segmento industriale si sia ingegnato per posizionare sullo scaffale offerte destinate al celiaco (o al consumatore poco tollerante): al contrario, anche il fronte artigianale si sta muovendo in tale direzione, con sempre  maggior cognizione.

Giusto a titolo di esempio, ricordiamo la Luppululà di Manerba (Pils brassata sul Garda, in provincia di Brescia), la Awanagana, Golden Ale del Piccolo Birrificio Clandestino, la New-Zealand (Pacific Ipa) a marchio Cr/Ak di (Padova), o ancora le birre firmate dal lombardo Nix Beer.