In vetrinaTendenze

Il festival perfetto per un beer geek

Fino agli anni novanta, ai primi duemila, e ci saranno ancora sicuramente non poche persone convinte di ciò, “festival della birra” significava automaticamente Oktoberfest. Per fortuna, son tempi belli che andati. Man mano, ci siamo affrancati dal luogo comune secondo cui andare a bere birra con amici e divertirsi insieme a tanta altra gente, in un senso di goliardia generale, non poteva prescindere da avere Monaco come destinazione; non solo: ad oggi, in Italia siamo riusciti a costruire una più che discreta tradizione di festival che richiamano gente da tutto il mondo come il romano Eurhop o l’Arrogant Sour festival di Reggio Emilia. Chiaro che, all’inizio, l’idea di avere anche solo più di dieci birrifici adunati nello stesso luogo e nello stesso tempo era oro, e di certo non si andava a spaccare il capello in quattro sul resto della faccenda. La distribuzione, i contatti, la rete informativa nel mondo della birra non avevano la potenza e la capillarità attuale soprattutto nei nostri confini. Tuttavia, la percezione e le aspettative nei confronti di un festival sono cresciute e l’appassionato medio – di bocca e attitudine più scafata rispetto al consumatore medio – di birra artigianale comincia a valutare tutta una serie di dettagli che vi gravitano attorno. Andremo allora ad analizzare gli elementi peculiari che dovrebbero caratterizzare una manifestazione di prim’ordine, ma soprattutto capire come queste si siano evolute nel tempo e che direzione stiano prendendo per il futuro.

Un aspetto di fondamentale importanza è sicuramente dato dai nomi. Quali birrifici e birre mi aspetto di trovare ad un festival? La mia opinione da geek: prodotti che non posso reperire facilmente al di fuori di esso. Certo, se dovessi dar retta alla mia verve più incallita allora l’unico festival che potrebbe venirmi incontro è il Mikkeller Beer Copenhagen Celebration, ma la maggior parte del tempo penso di essere una persona ragionevole, così direi che mi aspetto giusto una discreta parte (intesa come dal 20-30% a salire dell’intera gamma) di bevute che non potrei esaudire altrove con facilità. Vorrei chiarire questo punto per evitare di essere frainteso, e ritorno a quanto detto sopra: siamo nel 2017, e la birra gira con una facilità disarmante rispetto a prima. Oggi abbiamo la possibilità di trovare, sugli scaffali o alle spine dei nostri pub e beer shop preferiti, roba che fino a cinque anni fa ci saremmo sognati; e questo sia in stretti termini di reperibilità, sia per l’innalzamento della qualità da parte dei nomi di punta. Certo, avere un festival che ti serva tanto ben di dio è un’operazione che merita tutto il rispetto comunque. Pure se la stessa offerta puoi averla tutto l’anno. Ma l’esclusività non è solo un mero esercizio di stile, va oltre il gioco di prestigio: allarga le prospettive, le idee, la conoscenza, la visione d’insieme e in particolare sarà apprezzata da un geek. Rompicoglioni di natura.

Così, si passa alla parolina magica: selezione. Data l’impennata delle nascite di nuovi birrifici negli ultimi anni, verrebbe da pensare che si tratti del lato più facile. E invece, è probabilmente anche più difficile che in passato. Mentre prima potevi contare su meno nomi ma ben rodati, collaudati e sicuri, oggi scegliere diventa un lavoro anzitutto di scrematura. Il mercato è pieno di piccoli e neonati birrifici che hanno tutto l’interesse nel volersi lanciare con la partecipazione ad un festival, specie se si parla di kermesse di un certo livello, ma, se alla ventata di novità si vuole pure accompagnare una certa qualità media, diventa giocoforza dover scegliere in maniera lucida. Se un organizzatore vuole ottenere il successo dal proprio festival, dovrà costruirselo tramite una meticolosa ricerca (insieme al suo staff) che non potrà prescindere da assaggi, visite, viaggi, chiacchiere, girare per altre manifestazioni e così via. Un ruolo molto forte lo gioca poi il contatto: la comunicazione diretta con il birrificio, senza dover “attingere” al portafoglio di un distributore, è certo la maniera migliore per reperire prodotti freschi se si parla di birre luppolate; ciò non è sempre possibile, o perlomeno rischia di essere molto dispendioso quando i riferimenti sono d’oltreoceano. Si parla di spedizioni aeree, il raggiungimento di determinate quantità per ammortizzarle, raggrupparli nell’area geografica giusta, calcolare le tempistiche di arrivo, eccetera. E a margine di tutto, è poi altrettanto vero che la longevità e la forza di un festival passa indiscutibilmente per una nutrita schiera di nomi consolidati, storici, che devono poter essere sfoggiati come una bandiera rappresentativa (esempi: Cantillon per Eurhop, Cycle per il MBCC, Närke per il Borefts Beer Festival).

I nomi dei birrifici presenti. Già, ma quanti? Se volessimo ragionare all’americana, sarebbe presto detto: the bigger, the better. Non so chi legge quale cognizione abbia della grandezza dei festival statunitensi, ma snoccioliamo subito qualche cifra per essere chiari. Al Great American Beer Festival in quel di Denver, forse la più massiccia manifestazione di birra artigianale al mondo in termini di vastità, per tre giorni si ha l’opportunità di spaziare tra circa 800 (eh) birrifici per un totale di oltre 3500 (sic!) referenze. Se vogliamo scalare lievemente in piccolo abbiamo lo Hunahpu’s Day, tenuto a Tampa, dove si hanno “soltanto” un totale di 150 birrifici – per darvi la proporzione: almeno il doppio del recentissimo Brewskival, tra le organizzazioni più riuscite degli ultimi anni e che contava 73 nomi in lista. All’apparenza può sembrare una sorta di manna dal cielo, roba da sentirsi proiettati in un paese dei balocchi perpetuo – e senza trasformazione in asinello. La recente tendenza in Europa pare orientata verso la filosofia americana dei grandi numeri, tranne forse il BBF che resta fedele alla sua dimensione entro le venti presenze. È un bene o un male? Da bravo geek vi dico e vi stupirà sapere che sì, il fascino di un’artiglieria senza confini è forte, ma non è raro anche subire un senso di smarrimento. Perché logicamente dipende molto dal tempo che si ha a disposizione. Quanto dovrebbe durare un festival? Molti risponderanno che le sessioni sono il male, lo strumento del demonio! Io non la vedo così. La presenza di fasce temporali spezzate può presupporre un’opera di studio precedente relativa a cosa bere e quando, il che va a spoetizzare l’atmosfera goliardica e bucolica che tanti ricercano in un festival; però, chi sostiene questo, non considera l’aumento del rischio di ritrovarsi a vivere tempi morti. Nel mondo si va da una durata massima di tre giorni a una risicatissima singola sessione di una manciata di ore. A rigor di logica, è una durata che dovrebbe essere proporzionata al numero di birrifici presenti… e invece non va dato per scontato. Lo Huna Day – la parola stessa lo suggerisce – è estremamente corto (sei ore), e abbiamo visto quanti nomi ospita: se poi alcune birre prevedono file di almeno un’ora (ne avevamo parlato in uno degli scorsi articoli), si finisce per perdersi molto, ma molto altro. Questioni di priorità? Forse quella birra che inseguite da una vita potreste non ritrovarla mai più, chissà. O forse ve ne potreste fregare. Okay, tutto bellissimo e perfetto. Sicuri che però non dimentichiamo qualcosa? Un fattore preponderante sulla scelta di partecipare o meno ad un festival?

Sto parlando dei prezzi. Anche qui intervengono guerre di partito come tra guelfi e ghibellini. Full ticket (compri il biglietto e bevi illimitatamente) o tokens (ciascuna birra ha un prezzo espresso in gettoni)? La prima formula è famigerata per essere all’apparenza dispendiosa: d’altra parte c’è da pagare tutto in una volta sola ed è quanto salta subito all’occhio; ma ci si dimentica della conseguenza dell’atto e cioè nessun limite una volta superato l’ingresso. I sostenitori affermano: con i tokens io bevo esattamente ciò che voglio e so quanto spendo. Ne siamo certi? Quante volte ho sentito dire: ho perso il controllo e sono volati cinquanta gettoni (cifra a caso) in un niente!!! La verità è che una formula perfetta non esiste, e sarà casomai chi organizza a conoscere il suo pubblico e capire quale soluzione possa funzionare e rendere meglio. Il full ticket può comprendere anche una serie di benefits. Penso al MBCC, dove per un sovrapprezzo si può accedere al festival con quaranta minuti di anticipo; oppure ad altre situazioni americane, come il Dark Lord Day o il pluricitato Huna Day, che prevedono l’omaggio di un numero prefissato di bottiglie rispettivamente di Dark Lord o Hunahpu. Si tratta di mera pianificazione commerciale, non giriamoci troppo intorno, ma entrare in possesso di qualcosa che vada oltre i ricordi delle bevute è indubbio che lascia un appagamento in più.

E poi. Un festival come si deve non è tale se aggancia al lato prettamente birrario degli elementi di contorno che rendono l’insieme più vivibile e apprezzabile. Gli spazi non devono essere soffocanti e creare un clima claustrofobico; posti a sedere non devono mancare, e permettere alle persone di prendere le giuste pause dopo aver girato a piedi a lungo, o a noi geek di fermarsi a buttare giù appunti o check-in di Untappd; la musica può accompagnare anche con qualche breve esibizione dal vivo, ma senza attirare troppo l’attenzione; e il cibo, se buono e non inutilmente costoso, può far solo piacere. Tutti aspetti secondari che, a parità di selezioni, possono fare la differenza.

Concludendo: un beer festival è diventato, da semplice riunione di banchetti con spine, una macchina complessa capace di richiamare migliaia di persone. Se da un lato può sembrare che si sia perso qualcosa in termini di semplicità, dall’altro il concetto progredito di beer festival è potenzialmente in grado di trasmettere un entusiasmo senza pari. Che in tanti anni non ho mai perso.