Il parti-gyle tra storia e applicazioni moderne
Se pensiamo alla Gran Bretagna birraria e alla sua storia, riprendendo e rimodulando un tormentone pubblicitario di qualche anno fa (No Martini, no party), potremmo sentenziare qualcosa come No parti, no gyle. Nel senso che prima dell’avvento di più aggiornate opzioni produttive, all’ombra dell’Union Jack la modalità operativa corrente era rappresentata dal cosiddetto parti-gyle. Ovvero quel particolare procedimento per cui, una volta operato un ammostamento, da quella miscela fluida si ricavavano non uno, bensì più mosti (come minimo due); e, a cascata, ciascuno di essi dava luogo a un prodotto finale altrettanto diverso dagli altri.
La tecnica è stata ad esempio documentata entro il percorso d’indagine che ha permesso (più o meno, pur con qualche punto di discontinuità o di opacità) di ricostruire la vicenda relativa alle origini di tipologie fondanti nell’economia del repertorio UK, quali Porter e Stout. In sostanza, portato a termine il mashing, se ne triplicava la resa: estraendone un primo liquido zuccherino (molto denso) mediante la filtrazione per gravità attraverso il letto di trebbie; un secondo (più leggero) effettuando una prima fase di sparging; e un terzo, ancor più dietetico, figlio (facilmente intuibile) di un secondo lavaggio.
Quanto alla definizione, significa esattamente mosto frazionato: parti come variante in funzione prefissuale di parted (participio di to part ovvero separare); e gyle (da pronunciare con la g dura) avente il senso di malto d’orzo ammostato (o anche di cotta, singolo ciclo di birrificazione), per traslazione dall’iniziale goill, termine gaelico corrispondente a palude (si confronti anche la genesi del toponimo South Gyle, nome di una zona di Edimburgo situata sul fianco occidentale dell’area urbana, a sud-ovest di una superficie un tempo acquitrinosa, conosciuta come la Gogarloch).
Un procedimento, si è detto, assai diffuso in passato; senza dubbio al di là della Manica: tanto da dar luogo, sotto le insegne di Sua Maestà, nei secoli (non ancora all’orizzonte le Lager) della guerra di fazione tra Beers ed Ales (le prime luppolate, le seconde poco o niente), a una griglia di stili basata appunto sulla gradazione alcolica: Mild, Common e Strong (oppure Old) tra le Ales; Small, Beer (così semplicemente) e Stout nel campo avversario. Da non trascurare, inoltre, come anche oltre i confini scozzesi la scomposizione del mash fosse correntemente praticata. Ne sono testimonianza la suddivisione comunemente diffusa in ordine alle Scottish Ales (Light, Heavy, Export) e alle Wee Heavy (o Strong Scotch Ales), tutte quante figlie di un alquanto articolato parti-gyle.
Il quale, dettato da ragioni di economicità (evidente il risparmio di spazio, tempo, energia termica e materie prime) aveva anche il pregio di una certa elasticità: ciascuno dei mosti ottenuto per frazionamento (contrariamente a ciò che implicava l’approccio antipodico del single-gyle: una sola birra da un ammostamento) poteva essere luppolato a piacimento in bollitura; e ancor oggi, quando si ricorre a questo sistema, una parte degli stessi malti (quelli speciali, come il Crystal o il roasted, non necessitanti di saccarificazione) può essere aggiunta prima dell’acqua di sparging, con quest’ultima che provvederà, da quei malti, a ricavare gli zuccheri conferiti in dote.
E con questo siamo al presente. Il territorio del parti-gyle è infatti frequentato non solo ha homebrewers intraprendenti e curiosi, ma anche dai manovratori di sale cottura decisamente meglio attrezzate. Così la Anchor Brewing di San Francisco prepara la propria Small Beer (Bitter il cui stesso nome contiene un forte retaggio storico) a partire dalle acque di lavaggio dell’impasto utilizzato in partenza per la Old Foghorn, noto Barleywine della casa; in Italia la Petit Ghisa targata Lambrate reca il medesimo rapporto di parentela rispetto alla Imperial Ghisa, apprezzata Smoked Baltic Porter della scuderia milanese; mentre in Belgio, la trappista Orval ha avuto, fino al 2012, una sorella minore (lapalissianamente battezzata Petit Orval), ottenuta anch’essa per diluizione del mosto.