Vi voglio fare una domanda. Una semplice all’inizio, così che sappiate rispondere. O, perlomeno, può darsi che sappiate farlo. Poi voglio farne un’altra, e questa dovrebbe essere un po’ più difficile. Ok, quella più facile: che cos’è la birra trappista? Schematizzando si possono richiamare tre requisiti fondamentali: si tratta di una birra brassata in un monastero trappista; è fatta sotto la supervisione dei monaci; i ricavi dalle vendite vengono impiegati per sostenere il monastero, in particolare per opere di beneficenza.
Questa non era poi così difficile, no? Bene, veniamo adesso alla domanda più difficile. Che cosa dice un monaco trappista quando parla della sua birra? Ora, è possibile che vi stiano frullando per la testa una quantità di risposte che potrebbero apparire ragionevoli, ma state attenti: non è così semplice, come ho già detto. Poi, è ovvio, in ogni classe c’è sempre un saputello pronto a dire “niente affatto”, e può pure darsi che abbia ragione. Però, se io fossi il maestro, probabilmente dovrei correggerlo. Se trovate una birra con il marchio rubino scuro ottagonale e la scritta bianca “Authentic Trappist Product” sull’etichetta avete una garanzia: non soltanto che la birra rispetti le tre regole cui accennavamo prima, ma anche che la stessa sia prodotta seguendo standard qualitativi altissimi. Lasciatemi spiegare.
I monaci sono molto strani, e a volte non sembrano far parte di questo mondo moderno in cui viviamo. Non hanno bisogno di tutte le regole Europee relative alle denominazioni di origine, anche se non oserebbero mai trasgredire la legge. Per loro l’importante è che gli ingredienti provengono dal posto più vicino possibile e che siano ben controllati e idonei. Ricercano la qualità più alta possibile e preferibilmente la più genuina, segno della loro fede negli antichi valori di onestà e di rapporto con la terra.
Questi ingredienti saranno poi usati in modo che il prodotto finale presenti un carattere immediatamente riconoscibile, che dia la sensazione di compiutezza. Che sia difficile da migliorare insomma. Ma non lasciatevi ingannare da questa semplicità apparente! La birra (o il formaggio, il pane, il sidro…) prodotta in questa maniera potrebbe essere di una complessità allucinante, strati su strati che invitano ad essere scoperti ma che, al tempo stesso, non rivelano facilmente i loro segreti. E, a ben guardare, non è forse questo stesso il modo di fare grandi cucine, siano esse francesi, italiane o cinesi? Ingredienti semplici trasformati attraverso processi, a volte complessi, in un piatto veramente grandioso e capace di sbalordire.
Questo modo di fare e di pensare si riflette in tutto ciò che fa parte del mondo dei monaci trappisti. Ma io voglio parlare di birra, e non credo sia questa la sede adatta per disquisire sugli abiti o sulla regola Cistercense. Però, se avete l’opportunità di andare in un monastero trappista – in particlare una ancora in funzione – fate attenzione al modo in cui sono stati costruiti la chiesa, gli edifici, i giardini. Sono semplici, invitano la mente a riflettere, ma sono anche raffinati. Anche le località in cui tali monasteri si trovano sembrano trasmettere questo ritorno al passato, un ritorno alle radici. Per me hanno la stessa grandezza dei disegni del geniale Leonardo o, andando ancor più indietro nella storia dell’arte, dei disegni celtici di 2000 anni fa.
C’è anche un paradosso in quello che ho detto finora. Nessuno lo può spiegare meglio del maestro birraio dell’Orval – forse il più idiosincratico di tutti i birrifici trappisti. Il suo credo è “Faites simple!” ovvero fatelo con semplicità. Questo è coerente con tutto ciò che abbiamo detto prima, ma non significa certo che per ottenere la semplicità si debba per forza seguire una strada “rustica”. Se potete, dunque, dimenticate l’immagine del monaco in tonaca e con la chierica intento a girare il mosto. Quel personaggio è morto, è andato, lasciatelo riposare in pace.
Tutti i birrifici trappisti lavorano oggi con un birraio laico, come laica è la maggior parte delle persone che ci lavorano. Il birrificio Chimay giustifica questa tendenza come una risposta al problema della disoccupazione che colpisce la regione povera in cui sorge. I birrai sono delle persone tecnicamente molto educate, conoscono perfettamente la scienza di fare birra, ma anche tutte le leggi da rispettare e gli errori da evitare. Sono estremamente tecnici nel loro lavoro, e questo rende l’arte di fare birra un po’ meno arte. Hanno un occhio sempre rivolto agli ultimi sviluppi in materia.
I monaci, dal loro punto di vista, richiedono l’eccellenza. Se vengono accontentati e la birra è prodotta con metodi più pratici e semplici grazie all’uso della tecnologia moderna, loro la adoperano. In uno dei birrifici trappisti più grandi i monaci che lo dirigono richiedono ad esempio un report quattro volte l’anno per capire cosa deve essere fatto/cambiato per migliorare o eventualmente sperimentare. Tali modifiche riguardano però solo il metodo di fare la birra, non certo la ricetta della stessa. Le birre trappiste cambiano infatti raramente e questo avviene sempre come risultato di un lungo processo di meditazione e sperimentazione.
I birrifici trappisti, non senza motivo, sono ritenuti ricchi. Per quanto i monaci abbiano una vita austera e semplice, il risultato del loro lavoro è molto apprezzato (anche economicamente). Ma non crediate che qui i soldi vengano spesi con facilità, anche se così potrebbe sembrare visitando un birrificio trappista per la prima volta. Prima di ogni scelta saranno attentamente valutati i progetti degli esperti e, selezionate una o due proposte, diranno: “diteci quale pensate sia il miglior metodo di produzione”. Una volta convinti apriranno il portafoglio e, quasi sempre, questo significa che effettivamente è la soluzione migliore, e la tecnologia così attentamente valutata sarà finalmente acquistata (tecnologia che di solito si vede solo nei birrifici più grandi del mondo).
Un esempio perfetto si trova all’interno dell’abbazia di Westmalle, dove una torre moderna nasconde un fermentatore troncoconico, al tempo della mia visita in uso sperimentale. Come tutti i grandi birrifici, Westmalle, capisce i vantaggi del troncoconico. Sono consapevoli di essere un passo avanti rispetto alla strumentazione e ai metodi tradizionali, quindi per scelta non vendono la birra prodotta con il nuovo fermentatore finché non dimostra la stessa qualità di quella prodotta con il fermentatore tradizionale. Sicuramente iniziano già con il vantaggio di saper evitare gli effetti indesiderati di tali metodi. Nel caso in questione sanno ad esempio che la qualità della birra è minore tanto più alto è il fermentatore, motivo per cui per iniziare ne hanno installato uno piuttosto piccolo.
Ma la differenza più importante riguardo i fermentatori non è data dalla loro forma, bensì dalla tecnologia che si trova attorno ed all’interno degli stessi. Sensori computerizzati collocati in diversi punti del fermentatore rendono possibile la monitorizzazione del processo di birrificazione, tenendo sotto controllo una grande varietà di fattori. Alla fine, può essere considerato come l’ultimo giocattolo del birraio. Un giocattolo, in effetti, utilizzato però per una fine assai nobile: l’eterna qualità della birra trappista.
Un altro esempio di questo loro modo di fare (innovare rispettando la tradizione), lo troviamo nel monastero di Rochefort in Vallonia. Questa antica Abbazia ha uno spazio limitato per l’attività brassicola. Guardandosi attorno una volta entrati si ha l’mpressione che le costruzioni affacciate sulla corte interna siano disposte, in senso orario, dalla più antica alla più nuova. E, in effetti, è proprio seguendo quest’ordine che avvengono via via le ristrutturazioni. Ogni anno i lavori sono fatti sugli interni di una determinata porzione di edificio, mentre le facciate esterne sono lasciati stare. Nel caso di Rochefort la bellezza ti mozza il fiato. Così facendo i monaci mantengono il più possibile i rigorosi parametri estetici dell’antico ordine… (continua)
di Joris Pattyn