L’importanza del bancone per un pub
Se c’è un luogo in cui si cominciano a ricevere le prime informazioni su una birra, un luogo in cui la curiosità trova soddisfazione tra confronti e certezze, quello è il bancone di un pub. A dispetto delle tante possibilità che un appassionato ha per bere birra (beershop, acquisti online, homebrewing), il vero luogo che massimizza l’esperienza è proprio quella robusta struttura, solitamente in legno, che separa il bevitore dal publican ma che li fa anche incontrare, segnando il passaggio di consegne finali dalla filiera produttiva e distributiva alla platea dei bevitori assetati. Mentre per i frequentatori di un bancone la scelta delle birre da bere può essere uno dei momenti più spensierati della serata, per un publican a volte diventa un quotidiano test delle proprie capacità di comporre una taplist. I criteri di cui tenere conto per questa delicatissima attività, su cui può reggersi tutto il bilancio economico di un pub, sono tanti.
Innanzitutto, il numero di spine. Non è affatto un dettaglio banale, anzi forse può esserlo diventato oggi per effetto degli errori passati. Senza andare molto indietro, ancora un decennio fa lo scanzonato entusiasmo per la birra artigianale privilegiava e incoraggiava aspetti scenografici come gli scaffali pieni di referenze in bottiglia, sostituite oggi dalle lattine e posizionate per fortuna nei frigoriferi, e l’elevato numero di spine disponibili al bancone. A lungo andare si è capito che queste scelte presentavano dei problemi, innanzitutto di pulizia e sanitizzazione delle vie con effetti indesiderati nel servizio: con 20 o 30 spine da gestire il consumo di ognuna è spesso sempre basso, e questo comporta possibilità di infezioni nell’impianto nonché un eventuale, quanto sgradita, sovracarbonazione e ossidazione della birra. Inoltre l’incredibile e inarrestabile numero di nuove birre e nuovi birrifici è diventato via via molto difficile da seguire anche per un appassionato, per cui a volte, nonostante la grande gamma di novità presente al pub, un’offerta bulimica di referenze si scontra con limitate disponibilità economiche, di tempo e anche “epatiche” dei bevitori. Uno scenario questo che fa ricadere la scelta su nomi più sicuri in termini di qualità e costanza, dal minore rischio sorpresa.
Oggi è ritenuto normale avere una tap list con un numero di referenze compreso tra 5-7 fino alle 10-15 spine per un pub di media grandezza. Oltre tale numero, sono solo i consumi e la bravura dello staff a giustificare un tale impegno in termini di gestione della pulizia, dei tempi del servizio e del ricambio fusti in magazzino, quindi degli ordini. Un lavoro, quest’ultimo, ulteriore e diverso, nel senso che pensare a cosa proporre alle spine a volte è poco distante dall’arte della lettura dei tarocchi: se si conosce bene il proprio pubblico e si padroneggia una certa ars oratoria, si può convincere una certa fetta di bevitori a scegliere quello che si ha attaccato alle spine, ma per il resto le tendenze, la notorietà e la qualità (quella percepita) fanno la differenza e interpretarle non è sempre un compito facile.
Per comporre il puzzle di gusti e preferenze e impressionarlo sui bolli spina o sulle ormai iconiche lavagne, i criteri spesso usati sono tanti. C’è chi associa ogni via a una tipologia di birra, non necessariamente a uno stile preciso, e per semplicità suddivide così la fetta di clienti garantendo ad ogni bevitore una rappresentanza fissa. In questo modo si evita di deludere chi è più affezionato a bere quasi sempre le stesse birre e, al contempo, lo si invoglia a cercare quale novità presente su una determinata posizione alle spine, dando sempre un riferimento fisso. In tal senso ha una sua logica la scelta di non far mai mancare una via di pils e affini, una chiara o ambrata di medio-alto grado alcolico, una o più di luppolate (IPA e le sue declinazioni), una scura, magari una birra di frumento, e poi chi più ne ha più ne metta, in base ai posti disponibili.
Non sempre questo approccio può premiare, perché restano fuori tutta una serie di birre che sottendono una certa ricerca, che in teoria sarebbe un fiore all’occhiello per i publican più autentici, ma che se effettuata senza criterio può anche diventare una mannaia sulle loro teste. Trovare spazio alle spine per imperial stout, spontanee, affumicate e birre alle frutta può diventare complicato in questa logica, per cui spesso si relega questo tipo di selezione alla sola presenza in bottiglia, il che è rassicurante per un publican ma leggermente limitante per chi sta al bancone a bere, nonché per i birrai che producono qualcosa di non convenzionale.
Un’altra strada è quella di arricchire la propria taplist con birre che potremmo definire “fuori bancone” ma che fanno sempre riferimento al servizio da fusto. Le botticelle a caduta, per esempio, ne sono l’esempio più eclatante e sono ormai un fenomeno usuale. Sia che provengano dalla Franconia o dai birrifici italiani, hanno come pregio e difetto quello di dover essere aperte e svuotate in breve tempo, ma in luoghi rodati quasi mai questo è un problema, anzi è motivo in più per animare la selezione. Stessa cosa per i cask, a caduta o a pompa, anche se quest’ultima modalità è più vincolante perché avere una handpump sempre al bancone presuppone anche la necessità di doverla utilizzare spesso, ed è noto che questa scelta presenta ulteriori problemi di sanitizzazione se non si tiene ben conto dei ritmi e delle temperature di servizio (motivo per cui ora se ne vedono sempre meno in giro). Altra opzione ibrida sono i bag in box, quella specie di mini sacche, senza alcun contatto con l’aria, di capacità 3L o 5L, molto utilizzate da produttori di spontanee e affini, che risultano molto utili per il basso consumo di queste birre che spesso non giustifica il servizio da un fusto di volumi regolari, a meno di una forte presenza di appassionati del genere.
Incastrare tutto senza che nessuno sia scontento non è opera facile, e far quadrare i conti lo è ancora meno. Le differenze di prezzo tra una birra e l’altra non devono essere né troppo sottili – pena la scelta di bere birre che a quasi parità di costo abbiano un carattere più forte (più scure, più luppolate, più alcoliche ecc) – nè troppo evidenti per non scoraggiare bevute più impegnative dopo i primi giri. Per questo motivo, in molti casi si accetta di applicare un prezzo finale non troppo alto a birre molto complesse e di basso consumo, ma mantenendo non troppo basso il costo di birre richieste con molta più facilità: l’equilibrio tra questi flussi dovrebbe assicurare al publican di portare a casa la pagnotta, senza limitare lui nella ricerca, né tantomeno il bevitore negli assaggi.
La ricerca, appunto. Sembra essere un termine passato un po’ di moda se lo si intende coma la volontà di mettersi in macchina o aereo, andare a bere sul posto le produzioni dei birrifici in Italia o all’estero e selezionare quello che può fare al caso proprio per un periodo limitato di tempo o per qualche stagione particolare. Nella maggior parte dei casi questa ricerca si è trasformata, diventando capacità di scegliere distributori con condizioni di vendita adeguate, con una vasta gamma di birrifici collegati e con un portafoglio di birre tra cui poter spaziare. A volte un approccio ibrido può avere la meglio e torna molto comodo compiere un certo lavoro di ricerca soprattutto tra realtà locali, andando di persona a procurarsi i fusti in birrifici vicini o facilmente raggiungibili, per poi farsi supportare da chi distribuisce per ordinare qualcosa di meno reperibile.
Magari al cliente medio tutto ciò non interessa, ma interrogarsi sul perché il publican propone proprio alcune birre alle spine è una dei migliori modi per iniziare con lui una conversazione al bancone e approfondire, confrontandosi tra un assaggio e l’altro su quelle che sono le impressioni in merito a quello che si ha nel bicchiere e incarnando quello che è l’obiettivo di tutto il movimento craft: formare bevitori consapevoli.