La new generation tedesca: scopriamo i birrifici artigianali eretici
La Germania è uno dei paesi dove ho scoperto che la birra non è necessariamente una bevanda bionda, gasata e quasi insapore. Questo accadeva agli albori degli anni ‘90, anzi, ancora prima, quando viaggiavo con i miei e osservavo mia madre, astemia (ebbene sì) totale, sorseggiarsi una birra, attendendo il momento in cui mi avrebbe passato il boccale per un micro assaggio. Ricordi che forse mi hanno ben predisposto verso una nazione che adoro e che rientra nelle mie mete birrarie preferite.
Oggi la Germania conta quasi 82 milioni di abitanti, un consumo di birra che sta abbondantemente oltre i 100 litri annui pro capite e circa 1.300 birrifici. Numeri che ci fanno impallidire, visto che in Italia siamo quasi 61 milioni, di birrifici ne contiamo circa 450 ma consumiamo una miseria, meno di 30 litri a testa. Dunque la Germania è in piena forma e continua a trascinare il resto del mondo brassicolo? In realtà no e basta fare un salto indietro per rendersi conto che la situazione non è poi così rosea.
Sul finire della Belle Epoque attorno al 1910, la Germania contava circa 19.000 birrifici ed era il primo paese al mondo per produzione e per consumo pro capite. Un salto di quasi mezzo secolo e nel 1956 la Germania ha perso oltre diecimila birrifici, contandone all’incirca 3.200. L’emorragia continua fino agli anni ‘90 e poi il dato si assesta più o meno su quello attuale. Facendo dei paralleli, la situazione è molto simile a quella della Gran Bretagna e del Belgio, ma questi ultimi sono in netta ripresa, mentre paesi come Stati Uniti, Canada e Australia (e ovviamente Italia) si stanno facendo largo velocemente. Come se non bastasse oggi la birra viene servita praticamente ovunque gasatissima, in un solo colpo di spina, facendo ben attenzione a non perdersi manco una bolla di CO2, col risultato che è diventato difficile bersene più di una visto che lo stomaco si gonfia come una zampogna. È anche complicato capire cosa si sta bevendo e goderselo. Ho come il sospetto che mia madre resterebbe sulla sua posizione di astemia!
Cos’è accaduto in Germania? In realtà nulla, e questo è il problema. Dal 1516, quando Guglielmo IV Duca di Baviera emanò il Reinheitsgebot (o editto della purezza), che regolava la produzione e la vendita di birra, tutto è rimasto fermo. Doveva restare in vigore per un solo anno, per arginare gli effetti di una terribile carestia, ma solo nel 1992 la Comunità Europea ha costretto la Germania a bandire l’editto, almeno formalmente, perché in realtà la stragrande maggioranza dei birrifici tedeschi producono ancora birre perfettamente in linea con il Reinheitsgebot. Eppure qualcosa si sta muovendo. Alcuni nomi storici tra i birrifici, ad esempio i bavaresi Schneider e Weihenstephan attraverso birre collaborative e l’uso, talvolta, di luppoli non tedeschi (pur se in quantitativi omeopatici) hanno iniziato a innovare, senza stravolgerla, la tradizione. Ma è soprattutto grazie ad un piccolo manipolo di coraggiosi birrai tedeschi se la Germania sta rinnovando la propria, millenaria, tradizione. Ciò che li accomuna è il fatto che la maggioranza di loro non sono figli di birrai, non hanno ereditato birrificio, ricette e clienti, ma hanno dovuto faticare non poco per trovare un posto dove dare sfogo alla propria passione. Questo, a mio avviso, è uno dei punti centrali della stasi in cui ci si trova oggi: la maggior parte dei birrifici sono a conduzione familiare, diventare birrai è per molti ovvio e necessario, un lavoro comune vissuto senza alcuna emozione, cosa che si percepisce anche nelle produzioni.
Tornando al manipolo di innovatori di cui sopra il primo che ho conosciuto è Andreas Gaenstaller, che ha cullato a lungo il suo sogno, iniziando da giovanissimo la gavetta in birrifici storici di Bamberga e dintorni. Oggi ha finalmente il suo marchio, Gänstaller-Bräu, un birrificio che guida direttamente (e in solitaria) a Schnaid e una gasthaus, la Zoiglstube Drei Kronen, a Scheßlitz che conduce con Manuela, sua moglie. La sua capacità tecnica è indiscutibile, ma al servizio della miglior tradizione tedesca mette soprattutto il suo estro e la ricerca, che lo portano a rendere incredibilmente attuali pils, helles, dunkel, keller ecc. In tanti anni che lo conosco e assaggio le sue birre non ne ho mai trovata una banale né, tantomeno, con difetti. Di cotta in cotta ha alzato il limite del suo mercato, con birre di carattere e sentori ben pronunciati. Secchezza e amaro non spaventano più, anzi, sono la chiave del successo della sua pils. Ogni volta che assaggio una sua nuova birra, ne resto ammaliato. È anche ben conosciuto e stimato all’estero, e questo lo ha portato a collaborare con altri birrai, olandesi e scandinavi.
Il mio primo viaggio a Lipsia mi portò alla Bayerischer Bahnhof, birrificio storico, dove restai affascinato dalla Leipziger Gose, la celeberrima birra salata tipica della zona, che trovai però servita non al meglio: come al solito, troppo gasata. Ebbi anche l’opportunità di conoscere Matthias Richter, che lavora lì dal 2003 come birraio ed è oggi il responsabile della produzione. Chiacchierando con lui capii immediatamente quanto tenga alle birre che produce e quanta passione mette in ogni cotta. Al secondo viaggio trovai una Pils eccellente, “ai limiti massimi di amaro per i clienti di qui” come mi spiegò Matthias, oltretutto servita in modo più che appropriato, “sono riuscito – aggiunse – a spiegare come mescere al meglio le nostre birre ai ragazzi che lavorano al bancone”. Da allora la gasthaus ha ancora la precedenza, ma la conquista del mercato americano è a buon punto e le sperimentazioni si sprecano. La sua tecnica non era in discussione, ma la fantasia adesso ha libero sfogo, ora in affinamenti in botte, ora nell’uso di luppoli americani affiancati da luppoli tedeschi tradizionali e recenti.
A Bonn troviamo Fritz Wülfing che, pur senza birrificio, ha dato vita alla FritzAle, che sin dal nome ci racconta una storia ben diversa da quelle che siamo abituati ad ascoltare a queste latitudini: lui usa solo lieviti ad alta fermentazione, ma anziché produrre weizen, si ispira alla scuola americana delle India Pale Ale, Imperial I.P.A., Imperial Stout. Senza perdere la maestria tedesca nel dosare gli ingredienti, ha creato suggestioni nuove da luppoli americani come simcoe, amarillo, citra, che nelle sue produzioni sono sempre bilanciati e ben domati. Quando lo conobbi, in Belgio, mi regalò una bottiglia di IPA che assaggiai un paio di settimane dopo, tornato in Italia. Lo ricontattai immediatamente per complimentarmi: inizialmente non gli avevo dato alcun credito, consideravo l’idea di usare luppoli e stili americani per un tedesco una specie di “lo famo strano” e non avrei scommesso un centesimo sulla qualità. Fritz, al contrario, è un birraio tecnicamente molto preparato, ha viaggiato molto, conosce la storia e la tradizione della birra, non solo tedesca. Per esempio produce una Imperial Stout da 9%, in cui usa orzo roasted non maltato, così come avveniva in Gran Bretagna per una parte delle birre destinate alla Russia, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900.
Poco lontano da Bonn, a Colonia, ho avuto l’opportunità di conoscere Sebastian Sauer: birraio di Braustelle, un brew pub in periferia, importatore e distributore per la Germania con Bierkompass e con il suo marchio di birre, Freigeist. Sebastian gioca con la tradizione, finendo per essere ora iper tradizionalista, con una Kölsch che ricorda i bei tempi andati, ora un futurista impazzito (agli occhi dei tedeschi, almeno) con porter salate e brettate, birre alla frutta o qualsiasi cosa di realizzabile gli suggerisca la fantasia. In entrambi i casi ha i suoi seguaci, ma la maggioranza dei birrai tedeschi lo prende decisamente per pazzo.
L’ultimo che ho conosciuto, in ordine di tempo, è Georg Rittmayer, dell’omonimo birrificio. Georg ha ereditato un birrificio familiare che risale al 1422 e, pochi mesi fa, ha finalmente coronato il suo sogno, inaugurando il nuovo birrificio, ultramoderno, accanto alla linea di imbottigliamento di cui si servono molti altri birrai della zona. Georg non si dedica direttamente alla produzione, ma sovrintende ogni passaggio. La linea di birre estremamente tradizionali è affiancati da interessanti esperimenti che prevedono maturazioni in botti e uso di lieviti da champagne, cui presto seguiranno nuovi esperimenti, visto che una parte del birrificio è dedicata proprio a piccole produzioni.
I primi quattro di cui ho parlato non solo si conoscono, ma molto spesso si incontrano e discutono sul da farsi, a volte anche collaborando in qualche progetto o presentandosi uniti in alcune fiere o manifestazioni. E sono loro ad aver ispirato questo articolo, e a loro sicuramente si stanno unendo, seppur lentamente, anche altri birrifici, di cui ancora non ho notizia e tanti altri che ho nel mio taccuino come osservati speciali (tra i tanti cito Zehendner Brauerei a Mönchsambach e Schwan Brauerei a Burgebrach) lo faranno a breve. Attenzione però, perché “ci sono molti birrifici” afferma Sebastian “che saltano sul treno della new generation della birra, ma il problema principale è che non lo fanno spinti dalla passione, bensì da ragioni commerciali. E questo si sente nelle birre!”.
In ogni caso il rinnovamento è iniziato anche in Germania e le persone di cui ho parlato mi ricordano molto da vicino i birrai italiani agli albori del nostro movimento. Certo questo movimento innovatore incontra alcune resistenze come ci ricorda Fritz: ”La Germania, dal punto di vista birrario, è un paese fortemente conservatore, con un cartello di produttori ben protetto dal Reinheitsgebot e il tentativo di mettere sul mercato birre sempre più economiche ha avuto come risultato l’appiattimento totale del gusto. I birrai tedeschi non capiscono lo spirito e la passione della nuova cultura birraria mondiale né le fantastiche birre che ne derivano, piene di sapori e gusti”. Personalmente sono convinto che la Germania tornerà presto ai grandiosi fasti del passato, con una produzione però attuale che non perda mai di vista la qualità: senza passione non c’è grande birra né un rinnovamento del mercato e quindi nessun futuro degno di nota.
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Articolo tratto da Fermento Birra Magazine nr 4