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Pale Ale e Bitter: quali sono le differenze?

Che fine hanno fatto le English Pale Ale? Potrebbe intitolarsi anche così, volendo dare un po’ di brio romanzesco, il nostro approfondimento dedicato alla cosmologia dello stile Bitter. Ma già a questo punto il lettore sarebbe legittimato a sollevare un’osservazione più che ammissibile: Che c’entra farsi domande sulla sorte della Pale Ale, dato che si dovrebbe parlare di Bitter? Ebbene sì, chiedersi quale sia stato il destino delle Pale Ale c’entra eccome. Questo, anzi, è il punto centrale del nostro racconto giallo (un giallo ambra, nella fattispecie, data la dominante cromatica della galassia tipologica di cui trattiamo): dare risposta a quell’interrogativo ci porterà per mano nel mondo delle Bitter.

Un inizio dark

La nostra ricostruzione dei fatti si muove sul filo della storia. Anzi, di una storia. Che ha il suo punto d’avvio nella Gran Bretagna di inizio XVII secolo: scenario in cui le modalità correnti di essiccazione del cereale (a fiamma diretta) trasferiscono in miscela semi cotti in modo tale da conferire al mosto colori sostanzialmente uniformi, attestati su tonalità di bruno più o meno intenso, non di rado alle soglie dell’ebano e con frequenti incursioni in territorio torrefatto-bruciato. Ebbene, questo quadro consolidato subisce uno scossone con l’entrata in scena (è il 1642) dei forni a getto d’aria; il cui funzionamento, consentendo di modulare le temperature di trattamento dei chicchi, permette di ottenere birre anche decisamente più chiare. Birre caratterizzate da un color ambra che se poste a confronto con gli standard cromatici di allora, possono ben risultare pallide. E infatti, pochi decenni dopo la loro iniziale comparsa sulla ribalta, ricevono (siamo ai primi del Settecento) il conseguente battesimo di Pale Ale. Il loro identikit in sintesi? Grado alcolico medio-leggero (nella gran parte dei casi attorno a quota 5% vol.); tematiche olfattive richiamanti biscotto, frutta secca e caramello, nonché il floreale e terroso dei luppoli di Sua Maestà (qui molto più avvertibili di quanto non lo siano sotto la tirannide delle poc’anzi menzionate note roasted e burnt); corpo tendenzialmente agile, attraversato da una curva gustativo-palatale fluida e bilanciata nella dissolvenza dolceamaricante. 

La genesi

Dunque sistemiamo a questo punto la pietra miliare. Perché il debutto della Pale Ale (ripetiamo, una novità assoluta, portatrice di una moda di assoluta avanguardia) smuove, nel panorama brassicolo del Regno Unito, la percussione tellurica di una rivoluzione, destinata a propagare le proprie onde d’urto in molteplici direzioni. Da un lato scompagina gli abituali equilibri di mercato, costringendo i produttori tradizionali di birre più scure (ai quali è interdetto l’accesso ai nuovi malti, dato il loro prezzo più elevato in conseguenza del costo tecnologico degli stessi forni a getto d’aria), a elaborare strategie di difesa e contrattacco. Quelle strategie che porteranno alla nascita delle Porter e delle Stout. Su un altro fronte, poi, l’avvento delle modernissime ambrate pone le basi per la fondazione di una neonata genealogia stilistica; la cui messa in moto richiede un po’ di pazienza. Due sono i fattori che determinano questo effetto diesel: il primo è rappresentato dalla dispendiosità delle Pale Ale medesime (non a caso vengono spesso chiamate Twopenny, giacché questo è il loro valore, al banco, volendo berne una pinta, mentre per le altre si sborsa qualcosa come 1,25 o 1,35 pence); il secondo fattore frenante è costituito dal successo riscosso, a partire dal secondo quarto del Settecento, dal filone Porter-Stout, che ritarda l’offensiva delle rivali color rame. Ma è solo questione di lasciar scorrere le lancette dell’orologio universale. Passa un centinaio d’anni; la spesa per procurarsi i malti essiccati nei forni diminuisce; e così le Pale Ale escono progressivamente dal loro recinto dorato di bene di lusso (in principio appannaggio esclusivo dell’alta borghesia e dell’aristocrazia terriera, dalle quali sta sorgendo la classe capitalistica motore della rivoluzione industriale). La platea dei consumatori delle pallide si allarga incessantemente, anche perché, nella cornice generale della progressiva costruzione di un esteso settore manifatturiero, cospicue quantità di lavoratori si trasferiscono dai campi alle officine, via via maggiormente meccanizzate, dove vengono a svolgere attività più alienanti, certo, ma comunque meno pesanti. E così, allo stesso modo, meno pesanti, meno bruciate e più rinfrescanti sono le bevute richieste da questo nuovo esercito di salariati, per placare la propria sete. Il XIX secolo segna il ciclo d’oro delle Pale Ale, l’impennarsi del ramo ascendente nella parabola delle loro affermazione, della loro crescita in popolarità. E, per la serie corsi e ricorsi (si veda quanto accadrà, a cavallo tra fine Novecento e primi Duemila, negli Stati Uniti, con le American Ipa), quando un genere birrario assume posizioni egemoniche, in automatico dà luogo a ramificazioni, orientate potenzialmente a elevarsi esse stesse alla dignità di stile. Detto fatto: da altrettante costole della Ale prendono vita alcune tipologie derivate; ognuna, sul medio-lungo periodo, proiettata verso l’acquisizione di specifici tratti caratteriali e fisionomico. Su queste colonne, abbiamo già parlato delle Irish Red Ale e delle India Pale Ale; stavolta è il turno delle Bitter. 

Bitter: ovvero la Pale da pub 

Tra Settecento e Ottocento la filiera della Pale Ale compie passi importanti non solo in termini di accessibilità economica (grimaldello per conquistare il settore di mercato occupato dal consumatore dotato di un modesto potere d’acquisto), ma anche sotto il profilo del perfezionamento delle tecniche produttive e, quindi, della resa qualitativa. S’impone, ad esempio, la vocazione – verso il segmento delle ambrate – da parte di distretti territoriali baciati dal possesso di condizioni specificamente propizie alla loro preparazione: come quello circostante la cittadina di Burton on Trent, attraversato da acque dure in solfati (di gesso e magnesio), inclini ad amplificare le resine amaricanti messe in circolo dal luppolo. Requisito che risulterà determinante, per quest’area dello Staffordshire, al fine di ritagliarsi una posizione di spicco nell’avanzata vittoriosa delle pinte ambrate (e, soprattutto, nello sviluppo delle loro gemmazioni più luppolate, le già ricordate Ipa). Per farla breve, in virtù di un articolato intreccio di fattori, quella che è stata, agli albori, una presenza elitaria sul palcoscenico birrario del Regno Unito, diviene gradualmente un genere di larga diffusione. Ed eccoci a un secondo snodo cruciale del nostro racconto: la genesi, a partire dal Dna Pale Ale, di una progenie birraria che del patrimonio cromosomico di provenienza è gemmazione ed erede diretta, quella delle Bitter. La tipologia madre, che è ragionevole supporre fosse preparata con quantità tutto sommato moderate di luppolo (la designazione Ale e non Beer, accanto a Pale, rende legittima una simile ipotesi), conosce, nei decenni, uno sviluppo distributivo e di fruizione tale da costituire, esso stesso, una piccola rivoluzione nei costumi inglesi. Le pallide, infatti, in virtù della diffusione del vetro, incontrano un consistente successo sul fronte del consumo domestico, nelle versioni in bottiglia. Bottiglia al cui interno mantengono fragranze e freschezza, presentandosi, alla bevuta, in forma migliore rispetto alle corrispettive edizioni destinate alla spillatura nei pub (a pompa, direttamente alla mercè del contatto con l’aria, dunque dell’ossidazione e dello svigorimento delle prerogative sensoriali). Ebbene, per compensare questo svantaggio, le Pale non imbottigliate prendono a essere preparate con alcuni accorgimenti: impasti di cereale pensati per ottenere, insieme a note più marcate di biscottato, anche una colorazione tendenzialmente più scura (sul ruggine, tale da reggere meglio gli accennati processi ossidativi); una gradazione mediamente minore, così da velocizzare lo svuotamento dei fusti in legno; maggiori dosi di luppolo (se non in assoluto, in proporzione alla struttura del prodotto, più leggero in corpo e alcol), onde avere un’amaricatura più netta e decisa, a rappresentare l’elemento saliente nell’esperienza complessiva del sorseggio. Un’amaricatura in virtù della quale s’impone spontaneamente l’appellativo di Bitter, con cui rapidamente vengono a essere designate per distinguerle dalle altre. Di fatto, emerge e si profila un’ulteriore categoria stilistica; sulla comparsa della quale, tra l’altro, non è fuori luogo una sottolineatura con cui sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. Il radicamento di queste birre nell’ambito della somministrazione al pub, secondo la liturgia più storica (senza confezionamenti in acciaio, ma attingendo direttamente dalle botticelle in legno, appunto con spillatura a pompa o a caduta) ha fatto sì che le Bitter siano poi divenute per antonomasia le pinte della tradizione: percepite, in un certo immaginario collettivo, come più antiche; mentre al contrario, come tipologia in senso specifico, vedono la luce appunto nel corso dell’Ottocento.

 

Pale Ale e Bitter: differenza cercasi
Pale Ale & Bitter, ovvero separate alla nascita. Due stili caratterizzati da una profonda, intima, parentela e, dunque, da una non immediata distinguibilità. A tal punto che la dicitura Bitter, entrata in uso non prima del 1842 (stando ai documenti finora censiti), dopo il suo esordio, si rifrange velocemente, nei decenni successivi, in sottocategorie (identificate da sigle a discrezione dei produttori: ad esempio BA e BB; oppure K e KA o KK), tali da formare, insieme alle stesse Pale (identificate dalle iniziali PA), una griglia il cui vertice amaricante poteva coincidere con la IPA stessa. Insomma, una tassonomia tutt’altro che univoca. E quella tra Pale e Bitter è una sovrapposizione tendenziale dimostrata ulteriormente dagli esiti del loro cammino nel corso del XX secolo e di questo scorcio iniziale di XXI: lungo i quali la strada delle due ambrate non va distanziandosi in misura crescente, ma al contrario riavvicinandosi, fino sostanzialmente a coincidere, almeno in parte. Perché? Almeno due i motivi. Primo: la Pale Ale, venuta al mondo con in dote quantità di luppolo poco rilevanti, segue, nella propria crescita, le vicende dei profumati coni, accogliendone in ricetta dosi via via più consistenti. Secondo: la Bitter esce dallo spazio esclusivo del pub, conosce l’esperienza del confezionamento e del consumo lontano dal bancone; e anche per questo estende il proprio spazio vitale andando a occupare una fascia di latitudini etiliche ampia. Un fenomeno che porta le linee guida del Beer Judge Certification Program a suggerire un’articolazione interna della tipologia in tre sottostili: dai 3.2 ai 3.8 gradi abbiamo la Ordinary Bitter (secondo l’edizione 2015, che in tal senso ricalca quella del 1999, mentre nel 2008 era usato anche l’aggettivo Standard); dai 3.9 ai 4.6 la Best Bitter (nella versione 2015, mentre nel 1999 si proponeva anche l’appellativo Special e, nel 2008, pure una terza dicitura, quella di Premium); dai 4.6 ai 6.2 gradi abbiamo le Strong Bitter (sempre secondo il manuale 2015, a riprendere tal quale la classificazione del 1999, mentre nel 2008 le si affiancava quella alternativa di Extra Special). Ma al di là delle variazioni nell’etichettatura tipologica puntuale (se è per questo anche le soglie alcoliche di passaggio fra i tre sottostili hanno avuto le loro oscillazioni), ciò che merita sottolineare è come, sia nel 1999 sia nel 2008, il Bjcp individuasse la categoria più elevata in gradazione con il termine Pale Ale. E se nel 2015 tale identificazione scompare, da un certo punto di vista, il processo di riallineamento delle due tipologie compie addirittura un ulteriore passo avanti, giacché il testo più recente, nell’introdurre il capitolo riservato alle Bitter, le presenta come una famiglia sviluppatasi nell’alveo delle Pale Ale: in sostanza la Bitter, una e trina, viene inquadrata come incarnazione moderna del concetto archetipico di Pale Ale. Questa nostra riproposizione delle Styles Guidelines non vuole avere un valore dogmatico, ma piuttosto un esempio particolarmente calzante di un approccio, un modo di sentire e di percepire il rapporto tra le due tipologie. Un approccio che nella realtà concreta della produzione e nel consumo risulta poco palpabile e utilizzato soprattutto nella classe delle Strong Bitter. Perché, di fatto, la Bitter è vissuta come tale quando si parli di prodotti con una gittata alcolica bassa o, al limite, medio-bassa; mentre le taglie più alcoliche traslano, automaticamente, su un terreno in ordine al quale una buona quantità di birrifici continua a pensare (e a etichettare) ricorrendo alla denominazione di Pale Ale, a volte affiancata con la specifica geografica di English (o British). Una denominazione, quella di Pale Ale, alla quale si ricorre anche quando ci si attesti su latitudini etiliche modeste (intorno ai 4 gradi), ma si solleva il pedale relativo all’impiego di luppolo in caldaia e si limitano i contributi soprattutto tostati dei malti, andando così a occupare uno spazio ideale tra Golden Ale e Bitter, caratterizzato da un colore tra il dorato antico e l’ambrato scarico. Insomma, un affascinante ritorno alle origini in chiave moderna e alla primigenia distinzione tra Pale e Bitter. 

Di certo, ciò che accomuna le varie sfumature di questo glorioso ambito stilistico, è un ancor saldo cordone ombelicale con il loro assetto sensoriale prototipico. Colore da ambrato a ramato; aromi prevalenti di biscotto e tostato (frutta secca), affiancati da luppolature terroso-floreali (oltre a limitate concessioni ad agrumature nuovomondiste), con possibili venature di caramello e di esteri (mela), nonché contenutissime licenze diecetiliche; architettura gustativo-palatale imperniata attorno all’equilibrio tra rotondità del malto e amaricature da kettle hopping.