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Porta a porta nel Pajottenland con Kuaska: Brasserie Cantillon

Più di una decina d’anni fa, la RTBF (l’emittente nazionale belga in lingua francese) mi commissionò due puntate “par condicio” sul Pajottenland e sulla Vallonia da mandare in onda, in prima serata, nella seguitissima rubrica “Au Quotidién”, condotte dal giornalista di punta e mio grande amico Marc Oshinsky. La prima doveva cominciare con la mia entrata, senza preavviso, nella birreria Cantillon ad Anderlecht accolto dalla sorpresa e dall’abbraccio del mio “secondo padre” Jean-Pierre Van Roy. Causa problemi di luce riflessa o di chissà cos’altro, la maniacale operatrice continuava a farci ripetere tale scena senza essersi informata sul caratterino del soggetto che già, per puro affetto nei miei confronti, aveva accettato ogni ciak con una pazienza a dir poco sorprendente. Al decimo “si gira!” mio padre mi disse di avvertire la “casse-couilles” cioè la “rompicoglioni” che sarebbe stata l’ultima volta e che l’avrebbe cacciata a calci in culo. Riportai la missiva a chi di dovere con parole più gentili ma con fermezza da inderogabile “ultimatum”. Entrai “a sorpresa” nella birreria, mio padre mi venne incontro sorridente e mentre mi abbracciava mi sussurrò nell’orecchio “nous sommes deux cons” cioè “siamo due coglioni”. Nel dvd che cortesemente mi inviò Marc, possiamo leggere il labiale senza il bisogno della VAR.

Per un altro aneddoto emblematico e rivelatore per capire la personalità e il carattere di una delle persone più stimate e profondamente amate da ogni appassionato di questo pianeta, dobbiamo spostarci dalla birreria nella casa di Woluwé-Saint-Pierre dove lui vive con la moglie Claude, mia “seconda madre”, una delle donne più sensibili, dolci ed affettuose che io abbia mai incontrato. Poco prima di cena, con la rituale apertura col botto dell’inevitabile, per me inconcepibile,  bottiglia di champagne scelta, come aperitivo, dalla sua meravigliosa cantina, ricca di inestimabili vecchie gueuze, Jean-Pierre si ricordò di dover telefonare all’assicuratrice per risolvere una questione che lo aveva fatto incazzare non poco e della quale mi aveva parlato durante l’assemblaggio cui ebbi l’onore di partecipare nel pomeriggio. La telefonata fu pazzesca ed indimenticabile. Jean-Pierre, alla fine, testualmente disse alla malcapitata interlocutrice: “se entro cinque minuti non mi darà le risposte che le ho richiesto, cambierò compagnia passando alla concorrenza”. La cosa incredibile fu che indicò nome della compagnia avversaria, ubicazione dell’agenzia più comoda e nome dell’agente di riferimento. Dopo tre minuti, vi giuro, l’assicuratrice chiamò e tutto fu risolto, naturalmente a totale favore di Jean-Pierre!

Terzo aneddoto. Quando, sempre più frequentemente portavo in Belgio amici italiani da me facilmente plagiati senza alcuna resistenza, fermarsi in un autogrill nei pressi di Rochefort a comprare le favolose birre Trappiste a prezzi ridicoli era diventata un’irrinunciabile e divertente abitudine. In una visita, vidi per la prima volta nello scaffale un’orripilante lattina di kriek Belle-Vue e subito me l’accaparrai per fare una gag nella birreria di mio padre. Mentre mi serviva una delle sue incomparabili kriek Lou Pepe, approfittando del fatto che fosse girato, misi sul tavolo la famigerata lattina, simbolo dell’ultimo tradimento che Roger Vandenstock, bieco presidente della squadra di calcio dell’Anderlecht, storica nemica della “nostra” gloriosa Union St. Gilloise, aveva perpetrato contro il suo grande nonno Philémon, fondatore della birreria Belle-Vue, morto nel maggio 1945, una settimana dopo essere tornato dal campo di concentramento di Neuengamme. Il risultato fu una fragorosa risata che attirò tutti i presenti, familiari, staff e visitatori, che increduli si divertirono un mondo e mi portarono in trionfo, con la lattina in mano, come Bearzot nei mondiali del 72. Quell’esilarante momento fu immortalato in una storica foto che fece il giro del mondo.

Le cene a casa sua possono avere due svolgimenti ben precisi a seconda se io sia il solo ospite o se ci siano persone con me. Nel primo caso partiamo subito a polemizzare su questo o quell’argomento comunque sempre con la gueuze in primo piano. Nel secondo, si conversa del più e del meno ma poi inevitabilmente si vira verso la polemica e dal quel momento parliamo in francese stretto e a grande velocità per non svelare il contenuto agli increduli presenti. Immagino sarete ora curiosi di sapere quali siano le parti più insidiose dei discorsi, quelle che più stanno sullo stomaco a Jean-Pierre. Per lui la cosa più importante è la gueuze che deve essere con caratteri d’oro e con la G maiuscola. La gueuze è lo scopo e il fine di ogni produttore di lambic e deve essere sempre posta in cima a tutto. Poi vengano ottime kriek e framboise naturalmente ma la Gueuze è e deve sempre essere la regina della birreria, la ragione di vita del birraio. Potete quindi immaginare cosa possa pensare di tutti quei derivati “moderni” che attirano come mosche sempre più nuovi appassionati da ogni parte del mondo, italiani ed americani in testa. Non ne pensa male come prodotto in sé e stima moltissimo il suo adorato figliolo ma vorrebbe che tutti li considerassero in subordine alla regina Geuze che va innalzata sul pennone come una bandiera e che va  sempre scritta a caratteri cubitali. Altra cosa che lo fa imbestialire e non poco è quando vengono a trovarlo in birreria vecchi amici fiamminghi che, prima di partire, chiedono un cartone di una specifica birra speciale, quasi sempre tale birra è già finita, con le ultime bottiglie partite per l’Italia, la Scandinavia o per gli Stati Uniti. Non riuscire a sdebitarsi con quei vecchi amici che hanno aiutato e sostenuto la birreria nei momenti più bui per colpa degli italiani e degli americani che ormai hanno conquistato la priorità sulle vendite, gli fa lanciare degli strali paragonabili a quelli che Dante riservava ai dannati dei vario gironi dell’Inferno.

Una cosa che mi inorgoglisce sempre è la fiducia cieca che lui ogni volta mi elargisce a piene mani, fiducia che mi attribuì sin dai primi incontri come testimonia la straordinaria prefazione del mio libro “La birra non esiste” che non leggo mai per il timore di commuovermi troppo. Non dimenticherò mai una sua mail nel 2002 (eravamo ai nostri primi, timidi approcci con internet) che lessi in un internet point di Londra nella quale mi incoraggiava, incitandomi a tenere alta la bandiera del lambic e della gueuze tradizionali contro le vergognose ed ingannevoli versioni addolcite e sciroppate, in un importante e decisivo tutored tasting che avrei condotto il giorno dopo al Great British Beer Festival. Fu la prima volta che mi sentii insignito del ruolo di principale ed ufficiale combattente della nostra giusta causa. Pochi minuti prima della degustazione, dovetti subire forti e ripetute pressioni da parte di media e colleghi belgi e di altri paesi per convincermi a parlare solo del vero, senza menzionare i responsabili del falso. Mentre salivo al piano superiore per recarmi nella sala destinata, incontrai, casualmente credetemi, il mio figlioccio Ivan De Baets, mescolato nella folla che riempiva quasi ogni spazio calpestabile del mega festival. Ivan, vicinissimo alla famiglia Van Roy-Cantillon era uno dei pochissimi belgi che combatteva per la mia stessa causa. Subito gli parlai delle pressioni subite e lo invitai a farmi da spalla nell’ardua impresa. Mi scatenai, supportato da Ivan, contro gli addolcitori e venne fuori un evento che fece epoca. Al ritorno raccontai tutto a Jean-Pierre che mi gratificò con dei complementi che, oltre a rafforzare il già stretto legame con lui e con la sua straordinaria famiglia, diede a me una decisiva spinta a continuare con ancor maggior vigore ed entusiasmo. Doni che non mi hanno, dopo tanta militanza attiva,  ancora lasciato.

 

Articolo apparso su Fermento Birra Magazine