American Wheat Beer: storia e caratteristiche

Per andare ad esplorare la categoria delle American Wheat Beer, occorre tener presenti almeno tre elementi. Primo: il grano è ammesso, fino a una quota del 25% (non poco), nella ricetta delle American Blonde Ales; secondo, raggiunge il tetto del 50% nel protocollo di preparazione dei Wheat Wines (comparsi già nel 1988 sulla scena Usa); terzo, il grano è protagonista anche di due tipologie a larga diffusione ovvero le White Ipa e, appunto, Wheat Beers. Ecco, è esattamente con un confronto su queste due specificità stilistiche che ci accingiamo a proseguire il nostro percorso. Perché un parallelo tra White Ipa e Wheat Beers? Proprio perché godono, almeno da noi, di un rapporto di frequentazione più diffuso da parte dei consumatori; e perché, in virtù di ciò, si corre il rischio di sovrapporne, mischiarne ed equivocarne le rispettive peculiarità.

Partiamo da quello che è uno “spin off” (uno dei tanti) delle American Ipa: le White IPA. La sua nascita risale al 2010. Capostipite più o meno ufficialmente riconosciuta è la “Conflux 2”, performance eseguita a quattro mani dai marchi Deschutes Brewery (Bend, Oregon) e Boulevard Brewing Company (Kansas City, Missouri). Il “disciplinare” tipologico, come fissato dal Bjcp 2015, stabilisce quanto segue: gradazione tra il 5 e il 7%; valori in Ibu tra le 50 e le 70; ammostamento di una miscela di malti d’orzo e frumento; possibile (seppure non prescritta) speziatura aggiunta a fine bollitura; largo impiego di luppoli “a stelle e strisce”; fermentazione affidata a lieviti selezionato da Witbier.

Ebbene, soffermiamoci su quest’ultimo elemento, perché si tratta di uno tra i fattori più fortemente identificativi della categoria; e più fortemente distintivi, rispetto al “genoma” (procedurale e sensoriale) delle Wheat Beers, le quali, contrariamente alle “cugine”, prendono forma attraverso l’inoculo di ceppi ad alta fermentazione, ma di timbro neutro (secondo costume prettamente Usa), se non direttamente di lieviti Lager. Un discrimine che, oltre a giustificare la denominazione di Wheat Beers (in luogo di Wheat Ales), estromette, di rigore, dalla piattaforma odorosa tipica della tipologia, profumi secondari riconducibili al segmento “Blanche e (men che meno) Weizen” ovvero esteri fruttati orientati alla banana e speziature fenoliche evocanti chiodo di garofano o temi limitrofi.

Rifacendoci sempre ai “sacri testi” del Bjcp, in mashing il grano è ammesso in forma maltata e in misura oscillante tra il 30 e il 50%; le funzioni di aromatizzazione “via aggiunta diretta” escludono (altro elemento di separazione dalle White Ipa) l’impiego di spezie, quantomeno dal paradigma canonico; la lancetta del contenuto alcolico si muove tra il 4,5 e il 5,5%; mentre il contatore delle Ibu copre un range che va dalle 15 alle 20. Ecco, questa, del “tenore amaricante teorico”, è l’altra particolarità – accanto a quella, già citata, della scelta dei lieviti, ricadente su selezioni neutre o Lager, evitando ceppi “ad alta esterificazione” – che distingue, con nettezza, i “fondamentali” (e le conseguenti connotazioni sensoriali) delle American Wheat anche dalle corrispettive caratterizzazioni fissate per le Weissbier, almeno quelle “di base” (15-30 Ibu, in Germania, sono plausibili solo in applicazione alle Weizenbock) E tale sottolineatura risulta opportuna alla luce di come, sotto il profilo storico, le radici dello stile statunitense di cui ci stiamo occupando si fanno risalire direttamente, più che a qualche altro possibile antenato, proprio alla “famiglia Weisse”.


D’altra parte, un veloce collegamento mentale con le vicende che accompagnarono le fasi della colonizzazione europea dal Nord America, fa emergere immediatamente un dato di fatto ben noto. Tra i pionieri di quella colonizzazione, ebbero un ruolo significativo anche numerosi migranti di origine tedesca; i quali, evidentemente, recarono nel Nuovo Mondo, tradizioni, abitudini, consuetudini e “passioni” (anche alimentari) mai estinte, tra cui quella per… il boccale e la birrificazione. Ebbene, in effetti, gli storiografi confermano come l’utilizzo di grano non sia stato affatto estraneo all’esperienza brassicola “a stelle e strisce”; salvo poi osservare come tale “filone” sia andato esaurendosi per effetto di due “cesure” di massiccio impatto: i sentimenti ostili alla Germania comparsi e cresciuti oltre Atlantico già a partire dal primo conflitto mondiale (per poi dilagare con il secondo); e le ricadute traumatiche del proibizionismo (1919/20-1933), che condannò all’oblio le ricette più peculiari esistenti in precedenza, creando un deserto imprenditoriale (un’ecatombe di piccole attività), sulle ceneri del quale – una volta revocati (appunto nel 1933) i divieti contro gli alcolici – quell’enorme spazio vuoto sarebbe stato occupato in forze dalle industrie e dalle loro basse fermentazioni dal carattere standardizzato. Per la serie “corsi e ricorsi”, sarebbero state altre vicende di carattere militare, se non proprio bellico, ad avvicinare nuovamente i consumatori americani al “modello Weizen”. Dopo il 1945, infatti, con l’occupazione del territorio tedesco da parte delle quattro potenze vincitrici della guerra contro il Terzo Reich, l’esercito dello Zio Sam si trovò a presidiare, con propri stabili contingenti, Berlino Ovest e la BRD (Bundesrepublik Deutschland, a occidente) durante i decenni della guerra fredda. Ebbene, in quell’arco di tempo decine e decine di soldati familiarizzarono intensamente con le Weissbier locali, determinando – con il loro rientro a casa – la nascita di un “flusso di domanda” rivolto appunto a quelle tipologie. Un flusso che, gradualmente, avrebbe assunto proporzioni abbastanza rilevanti da incoraggiare un produttore lungimirante a decidere di andare incontro a quella richiesta, evitando di lasciare “il boccone” alla possibile concorrenza straniera. La Anchor Brewing di San Francisco, nel 1984, lanciò sul mercato la Summer Wheat, considerabile a tutti gli effetti come la capostipite delle moderne American Wheat, con i suoi 4.5 gradi alcolici e l’innovativa opzione di uno “hopping pattern” di sensibile entità, nonché affidato a gettate, in dry hopping, di Goldings e Simcoe.


Nel tempo le divagazioni dal “paradigma canonico” della tipologia abbondarono, tanto nel numero, quanto nella varietà delle direzioni seguite. E così, facendo tesoro di come le sue “antenate stilistiche” più o meno dirette (Weizen, Wit, Mumme e così via) abbiano dato prova di saper accogliere in ricetta, con buoni risultati, ingredienti di vario genere in funzione di aromatizzanti diretti, ecco che anche le American Wheat si sono messe alla prova in “performances” contemplanti l’impiego di frutta (intera o in purea), spezie, fiori, foglie e altro ancora. Così, la statunitense “Fortunate Islands Grapefruit Zest” – prodotta dalla scuderia Modern Times (a San Diego, California) come personalizzazione della primigenia “Fortunate Islands” (alcol al 6%, dosi generose di Citra e Amarillo) – prevede, rispetto al copione originale, un sensibile abbassamento della gradazione (fino al valore di 4.8) e soprattutto il conferimento di scorze di pompelmo accuratamente prelevate a mano. Sempre negli Usa, a Greenboro (North Carolina), la Preyer Brewing Company, rende “modulare” il paradigma della propria American Wheat Ale (da 4.8 gradi) per ricavarne diverse “repliche non gemellari”, ciascuna caratterizzata da una particolare aggiunta modificante: ad esempio pesche e zenzero nella “Greenboro Greenway Gulp” (alcol 4.4%); lamponi a palate nella “Strawberry” (alcol 4,8%). Passando in Europa, immancabile un cimento – anche sul terreno in questione – degli infaticabili sperimentatori di To Øl: che, per la loro “Blossom” da 6.3 gradi (brassata negli stabilimenti fiamminghi di De Proefbrouwerij) si avvalgono, in affiancamento a una cospicua luppolatura (Simcoe, Citra, Galaxy e Amarillo), di petali essiccati di fiordaliso, ibisco, calendula, rosa, biancospino, fiori di lampone. Infine, in Italia, la Gilda dei Nani Birrai (a Pisa), affianca alla sua canonica “Ferus” una variante di pari taglia etilica (5.5%), battezzata “Ferus Mint” includendo, in fase di fermentazione fermentazione, la deposizione nella massa liquida di  balsamiche foglie di menta.

 

Wheat Beers: l’identikit
Qual è la carta d’identità sensoriale delle Wheat Beers? Colore chiaro (dal paglierino al dorato scarico); tessitura visiva variabile da una limpidezza addirittura brillante a una velatura intensa, quando non propriamente torbida; schiuma che dovrebbe presentarsi bianca, di buona copiosità e durevolezza. Ventaglio aromatico incentrato su due cardini: da un lato le (moderate) sensazioni da cereale fresco e panificazione legate ai malti in miscela, dall’altro le (altrettanto dosate) correnti odorose apportate dai luppoli “made in Usa”, con i loro contributi agrumati, floreali, fruttato-esotici o speziali; in mezzo, più sottili percezioni fruttate eventualmente legate a esteri fermentativi. Condotta gustativa coerente all’impianto olfattivo: agganciata (ancora) a impressioni di cereale fresco o di panificazione a breve cottura (con eventuale connotazione di lieve dolcezza o, meglio, di morbidezza); ma propensa a esprimere un indirizzo amaricante che, pur contenendosi entro limiti di moderazione, può farsi avvertire con nitidezza, sia in intensità, sia in persistenza. Assetto palatale di corporatura da medio-leggera a media, vivacizzato da una frizzantezza spigliata, cui si concede di variare da tenori medio-alti a propriamente alti.