Stili da riscoprire: le Spruce Beer
Nell’opera di raccolta di notizie, riferimenti ed elementi di conoscenza relativi a tipologie birrarie estinte o quasi ormai dimenticate, ci si è imbattuti, con le Spruce Beers, in un prodotto difficilmente ascrivibile a una precisa tradizione territoriale. Infatti a ben vedere si trattava di uno stile cosmopolita, comune all’esperienza di nazioni diverse, anche lontane migliaia di chilometri tra loro. Accanto alla Spruce Beer intesa come Birra Prussiana (qui un post dedicato), nel corso del processo di colonizzazione condotto dagli europei lungo le frontiere dei nuovi continenti, esploratori e antropologi ebbero modo di incontrare e annotare svariate altre interpretazioni di tale, medesima, categoria brassicola, interpretazioni caratterizzate da differenze e affinità spesso del tutto casuali.
Ad esempio, nel Nord America, avendo trovato gli Uroni (una tribù pellerossa nativa dell’Ontario) usi a consumare una bevanda (sorta di tè) aromatizzata con corteccia di cedro bianco, e avendone apprezzato le qualità salutari, i primi europei insediatisi in quelle aree – nel XVI secolo – trassero spunto da tale consuetudine per preparare birre arricchite, nel loro caso, appunto con abete (in particolare il peccio mariano), pianta più efficace nel garantire quegli apporti di vitamina C che erano decisivi per combattere lo scorbuto, patologia tipica proprio dei lunghi viaggi e delle conseguenti insufficienze alimentari. Interessante, tuttavia, constatare come lo stesso spunto d’ideazione venne poi messo in pratica in modo diverso da parte degli insediamenti francesi, da un lato, e dall’altro olandesi. Questi ultimi, del peccio, aggiungevano al mosto in bollitura aghi e racemi, ricavando – dopo la fermentazione – pinte dal look chiaro e dal gusto resinoso, per integrare il quale, all’atto del confezionamento, si provvedeva con una certa quantità di zucchero. Tra i francesi, invece, si era soliti gettare in bollitura non solo rametti e aghi, ma anche piccoli coni, incrementando la cessione di resine amaricanti e odorose. Inoltre, prima della fermentazione, si travasavano in caldaia – a conferire colorazione scura e gusto torrefatto – anche semi abbrustoliti di frumento o segale oppure orzo o ancora mais (in scala crescente di preferibilità), che poi venivano rimossi prima dell’inoculo di lievito, anche in questo caso accompagnato da un supplemento di sciroppi zuccherini.
Al’altro capo del mondo, in Oceania, fu lo stesso James Cook a documentare, nel Settecento, la prima cotta di Spruce Beer in Nuova Zelanda. In questa circostanza, si utilizzò, come aromatizzante, un decotto di aghi di rimu (conifera tipica di quelle terre del Pacifico); ingrediente che, essendosi rivelato un poco troppo astringente, rese necessario correggere il protocollo con una pari quantità di foglie di manuka, salvo poi comunque intervenire con una dose extra di materiale fermentabile, conferita in caldaia e costituita nella fattispecie da melassa. Quest’ultima, nel ruolo di accompagnatrice dell’abete, sarebbe poi divenuta canonica, tanto nelle versioni canadesi, quanto in quelle elaborate e sorseggiate nelle colonie inglesi lungo la costa est del Nord America (la Virginia, ad esempio) e dunque successivamente negli Stati Uniti orientali. Tra le riedizioni contemporanee, citiamo, in Pennsylvania, la Poor Richard’s Tavern Spruce, elaborata dalla Yards Brewing Company eseguendo una ricetta che si dice firmata da Benjamin Franklin in persona.